La Dott.ssa Patrizia Nardi, del Dipartimento SPICIA, Facoltà di Scienze Politiche di Messina, e Dottore di Ricerca in Storia, ci offre un significativo contributo sui “percorsi culturali” e sul ruolo identitario, rafforzato dall’auspicato riconoscimento di patrimonio immateriale dell’Unesco, che tali percorsi possono svolgere nell’identificazione culturale di un territorio che, come Palmi, saranno chiamati ad essere parte costituente ed integrante di Reggio Città Metropolitana.
(E.C.)
Percorsi culturali e Prospettiva UNESCO.
La Rete delle grandi Macchine a spalla italiane, la Varia di Palmi, la Calabria
di Patrizia Nardi
Il 17 ottobre 2003, dopo che nel 1999 il Comitato Esecutivo aveva lanciato il programma dei “Capolavori del patrimonio orale e immateriale dell’umanità” (Masterpieces of the Oral and Intangible Heritage of Humanity), la Conferenza Generale dell’UNESCO ha approvato a Parigi la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale: “pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e i saperi – così come gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati ad essi – che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come facenti parte del loro patrimonio culturale”. Un patrimonio diverso da quello materiale, costantemente ricreato dalle comunità e basato sulla ripetizione di processi identitari che si sono arricchiti, nei secoli, delle suggestioni e dei saperi dell’interazione, dello scambio, del confronto. Un patrimonio, per questo, senza precisi contorni ma aperto alle commistioni, alle contaminazioni.
Con la Convenzione del 2003, per la prima volta in maniera sistemica e superando il concetto elitario legato all’individuazione delle “eccellenze” – le sole, fino ad un passato molto recente, a potere essere candidate a Patrimonio dell’Umanità – si è introdotto un principio democratico che, attraverso la prospettiva della tutela UNESCO, di fatto ha incoraggiato le comunità a riconoscere, valorizzare e trasmettere la propria cultura intangibile, il proprio “vissuto” espresso, appunto, attraverso le “pratiche, rappresentazioni, conoscenze e saperi”.
Le Feste italiane della tradizione costituiscono uno dei gruppi più variegati e complessi di questa tipologia di beni patrimoniali: riconducibili a territori diversi e a comunità con storie differenti, presentano tuttavia, in alcuni casi, segni e pratiche che per morfologia e simbolismo convergono in sincretismi culturali che riassumono la propensione ad integrare provenienze culturali differenti.
È il caso delle feste con uso di grandi macchine cerimoniali a spalla – i Gigli di Nola, la Varia di Palmi, la Faradda dei Candelieri di Sassari, la Macchina di Santa Rosa di Viterbo – che, pur presentando inevitabili peculiarità frutto del rapporto imprescindibile con il luogo d’origine, prefigurano molti importanti elementi di condivisione, dal rituale del trasporto, all’offerta votiva della forza, alla partecipazione collettiva. L’essenza stessa di ognuna di queste feste, che ha fatto sì che comunità distanti si potessero riconoscere ed inserire in un’unica cornice simbolica di riferimento: quella che segue i tratti di un mondo “compiuto”, quello del Mediterraneo. Come luogo di confronto, di scambio e di fusione di civiltà differenti, con costumi, atteggiamenti, valori e ideali che sono ancora oggi la sintesi di elementi giunti nel Mare Nostrum da ogni dove.
Elementi “riconosciuti”, sulla base dei quali queste comunità hanno dato luogo ad una rete che negli ultimi cinque anni ha del tutto spontaneamente prodotto un condiviso percorso di crescita tracciato “dal basso”, basato sul dialogo e lo scambio, che ha motivato la presentazione della candidatura della Rete italiana delle grandi Macchine a spalla a Patrimonio dell’Umanità. La prima candidatura tematica ad essere ufficialmente proposta al Segretariato Generale di Parigi da uno Stato Parte; la prima candidatura di un sito calabrese a Patrimonio dell’Umanità.
Nel caso della Rete, apparati cerimoniali e sistemi valoriali simili non inquinati da processi di mercificazione o di teatralizzazione utilitaristica, hanno favorito percorsi di valorizzazione e di trasmissione di una parte importante della cultura della tradizione italiana, che un eventuale riconoscimento UNESCO non farebbe altro che stigmatizzare; incoraggiando, al contempo, forme di integrazione tra comunità geograficamente distanti e l’esercizio di quello spirito di identità nazionale non sempre forte, come dovrebbe essere.
Percorsi non sempre facili, nonostante la lodevole buona volontà delle comunità locali e la disponibilità ad investire da parte delle amministrazioni comunali referenti, non senza difficoltà di bilancio. Una buona volontà che meriterebbe di essere supportata da strumenti teorici e pratici atti a codificare nuovi concetti sistemici adeguati a trattare la complessità di relazioni che questa tipologia di beni patrimoniali comporta; strumenti elaborati sulla base di un lavoro sinergico tra comunità, istituzioni politiche, istituzioni culturali (università, soprintendenze) e utile a definire le azioni di intervento necessarie ad inventariare, in primo luogo, e quindi a valorizzare un patrimonio che può essere “valore aggiunto” e che, in una nuova chiave interpretativa, potrebbe costituire uno degli aspetti più interessanti e promettenti dell’ampio quadro delle articolazioni contemporanee della cultura.
Una risorsa a cui attingere, non solo per rispondere al bisogno “di famiglia”, di “aria di casa” in contesti sempre più omologati dagli effetti della globalizzazione, ma a cui collegare l’inestricabile nesso tra cultura, valorizzazione dei territori – soprattutto quelli più lontani dai circuiti consolidati della domanda turistica –, sviluppo locale e contesti nazionali ed internazionali di promozione. Uno strumento per garantire la diversità culturale che è alla base della creatività, dell’innovazione, del progresso, del dialogo e dello scambio, elementi necessari a mantenere la coesione sociale e a favorire lo sviluppo.
Basterebbe seguire le direttive della Convenzione di Parigi e, soprattutto, l’esempio della Regione Lombardia che fin dal 2008, approvando la Legge Regionale n. 27 sulla “Valorizzazione del patrimonio culturale immateriale”, ha dimostrato di recepire i principi unescani ponendo le premesse per il finanziamento della loro effettiva applicazione pratica. Un esempio che anche – e forse soprattutto – la Calabria, e quando ci sarà l’Ente Città Metropolitana di Reggio Calabria, dovrebbe seguire al più presto.