Reggio Calabria. Uno dei vezzi del nostro tempo è che certi personaggi, generalmente reggini vissuti lontani da Reggio, ritornino “cresciuti” e “perfetti” da noi, annunziando qualche insegnamento sulla morale o sulla vita, pronunziando una formula che attesti saggezza conquistata e maturità raggiunta. E noi, che a Reggio consegniamo la nostra quotidiana opera, siamo giudicati secondo la loro gloriosa luce e sovrana libertà di linguaggio, ottenute dietro non meglio identificati riconoscimenti professionali o politici o culturali. Il nostro tempo, che è il tempo dei nostri figli, resterebbe senza storia se non vi fosse, oltre alla realtà costruita dai discorsi, una memoria più gravida di fatti. E per fortuna tutti siamo visibili sotto questo quadrato di cielo, così le nostre storie, le nostre opere. Dir male di Reggio è diventata una moda inaugurata parecchi anni fa da un giornalista-critico pontificante e da un politico, ancora una volta reggini, ancorché indiscutibilmente bravi nella loro principale occupazione.
E se i professionisti più seri hanno adoperato tale linguaggio e una simile misura, figuriamoci i meno seri, che non potrebbero passar loro neanche il foglio e la penna.
Ma anche questa volta Reggio riuscirà a digerire le deturpazioni e le costanti manomissioni cui i suoi nemici l’hanno fatta segno. Lo spazio diventa tempo. Costoro torneranno a Reggio come da un viaggio, nelle ore in cui la città si offrirà alla loro coscienza, come di fronte all’occhio d’una macchina fotografica. V’è un elemento della nostra città, tuttavia, che essi non potranno mai distruggere, ed è la sua luce, la luce di chi la conobbe nei secoli, quella luce che può essere bevuta come un liquore caldo e che si ricorderà sempre, appena se ne sarà lontani.
C’è ancora un gradino da salire per chi lavora per Reggio: arrivare al decoro di essere calunniati, di essere calpestati nel ruolo e nel significato d’un atto o di una azione. Poiché questo non è che un privilegio, un segno di distinzione, di coloro che sanno di non essere altra cosa che la città stessa che vivono, come il figlio la madre, per cui pagherà le ingiurie e le calunnie di chi l’ha posseduta senza averla amata.
A coloro che continuano a insultare la città e le sue istituzioni diciamo: “Non v’inchinate per raccogliere gli applausi del pubblico … piuttosto presentatevi col petto in fuori, ben diritti, …. Se v’inchinate la corona vi cadrà dalla fronte!”
Giuseppe Bombino
Università Mediterranea