Reggio Calabria. C’è una proposta di legge regionale, anzi due (la 69/10 di cui è unico firmatario Mauro D’Acri e la 74/10 presentata da Carlo Guccione, Michele Mirabello, Domenico Bevacqua e Franco Sergio) che vorrebbero regolarizzare la vendita dei terreni demaniali e destinarli alla coltivazione. Idea ricorrente in tempi di vacche magre e spending review, in Calabria così come in altre regioni d’Italia. I testi sono arrivati davanti alla commissione regionale competente ma, dopo una prima verifica, sono stati rinviati a data da destinarsi. Per fortuna oserei dire. Per fortuna perché queste due proposte di legge non prevedevano un passaggio fondamentale, necessario per elevare un argine concreto contro il rischio che i terreni coltivabili calabresi possano finire nelle mani sbagliate, fra i tentacoli della ‘ndrangheta.
Così come sono state elaborate, infatti, le due proposte andrebbero a prevedere il ricorso all’autocertificazione antimafia per tutte quelle assegnazioni inferiori ai 150 mila euro. In una terra come quella calabrese, dove le capacità economiche sono spesso in mano ai boss o ai loro prestanome, è facile intuire che quello della vendita dei terreni demaniali, accoppiata allo sfruttamento delle immense risorse economiche che l’Unione europea sta dirottando verso la Calabria, potrebbe diventare un nuovo e lucroso business.
Così è stato nella dirimpettaia provincia di Messina. Dove, come evidenziato da un servizio curato da “Presa diretta” di Riccardo Iacona, sui terreni acquisiti dagli uomini della mafia si sono consumate truffe milionarie. Raggiri a sei zeri cui è stato messo fine solo per l’ostinata fermezza del presidente del Parco dei Nebrodi. L’avvocato Giuseppe Antoci, che da qualche tempo è costretto a vivere sotto scorta per le ripetute minacce ricevute, ha detto basta a questi giochetti e, in collaborazione, con la Prefettura di Messina ha messo fine alla svendita dei terreni demaniali.
I Comuni peloritani, il Parco dei Nebrodi, l’Ente di sviluppo agricolo e l’Ufficio territoriale di Governo hanno sottoscritto un protocollo di legalità che, al secondo comma dell’articolo tre, recita: “i firmatari, prima di ogni e qualsiasi attività preliminare alla definitiva concessione di beni ricadenti nel territorio del Parco, chiederanno al Prefetto di verificare la sussistenza o meno di una delle cause di decadenza di cui all’articolo 67, del decreto legislativo 6 settembre 2011, numero 159, e successive modificazioni ed integrazioni nonché la sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa a norma dell’articolo 91 del medesimo Decreto legislativo. Trascorsi i termini si procederà previa sottoscrizione del richiedente di atto sostitutivo di notorietà attestante i requisiti previsti dalla legge antimafia”. In parole povere, nelle proposte di legge in discussione a Palazzo Campanella, o in quella che dovrebbe essere partorita dal confronto fra i consiglieri regionali proponenti, sarebbe utile fare un esplicito riferimento alle norme previste dal Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, seguendo le correzioni studiate oltre Stretto, per blindarsi davanti al rischio che l’economia mafiosa, con la sua enorme forza, possa fare incetta delle terre calabresi. “Basta inserire questi passaggi – ha chiosato il presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci – per tutelarsi e, soprattutto, per evitare che si faccia tutto in autocertificazione”.
Giovanni Verduci