di Fabio Papalia
«Nonostante tutto gli stendo la mano, ma anche loro devono fare un gesto per avvicinarsi». Le mani di cui parla il Questore di Reggio Calabria, Carmelo Casabona, non sono quelle di un latitante, per mettergli ai polsi le manette, ma quelle dei colletti bianchi dell’imprenditoria reggina, come Confindustria. Nato a Caltanissetta 56 anni fa, sposato e con tre figli maschi, due dei quali poliziotti, il nuovo Questore si è insediato a Reggio Calabria lo scorso aprile. Paziente quando si tratta di studiare e capire i problemi da risolvere, deciso e risoluto quando si passa all’azione per attuare le soluzioni escogitate. «Sono orgogliosamente orgoglioso di essere siciliano», dice di sè. Sempre teso verso l’odore della sua Sicilia e verso quei valori che tanti siciliani come lui, o uomini dello Stato venuti dal Nord, hanno difeso a costo della vita. Come il capo della Squadra Mobile di Palermo, ammazzato alle spalle. Ne ha visti tanti, morti ammazzati, in trent’anni di carriera che hanno incrociato, e in molti casi svelato, alcuni dei più gravi fatti di sangue targati prima mafia, poi camorra, e adesso ‘ndrangheta.
Quando e perché ha deciso di entrare in Polizia?
Era stato ammazzato Boris Giuliani. Nel 1978, appena laureato in giurisprudenza, mi si presentò il concorso, la possibilità di entrare in polizia. Ero già impiegato all’Ufficio del lavoro, come funzionario, quando fu bandito il concorso da 110 posti per commissario. Già lavoravo, e contemporaneamente risultai vincitore del concorso in polizia, e del concorso per cancelliere alla Corte d’Appello al Tribunale di Caltanissetta. Ero indeciso, mi sono trovato con un lavoro già ottimo, a casa mia, un concorso già vinto, a casa mia, e la lettera che mi annunciava che avevo vinto il concorso in polizia. Non sapevo cosa fare. È stato il presidente del Tribunale di Caltanissetta, amico di mio padre, al quale mi ero rivolto chiedendogli un consiglio, a farmi decidere. Mi disse “quello della polizia è un bel mestiere, perché non scegli questo?”. E così ho strappato il concorso vinto come cancelliere, e ho lasciato il lavoro in ufficio.
Quale fu la sua prima sede?
Pur essendo sposato, e con un figlio, fui mandato a Sondrio, il posto più lontano dalla Sicilia. Poi mi mandarono a Palermo, alla Squadra mobile, sezione omicidi. Ricordo ancora il primo giorno, era il 26 agosto 1982, sono arrivato a Palermo, ed ero parte dei rinforzi che avevano promesso al generale Dalla Chiesa. Sono stato assegnato al capo della mobile, Ignazio D’Antona, il quale mi mandò alla omicidi, la sezione dei becchini, la chiamavamo, perché si indagava solo sui morti, in piena guerra di mafia, con 300 morti l’anno.
Quale fu il suo primo incontro con Dalla Chiesa?
Dopo una settimana che ero arrivato, alle nove di sera, eravamo tutti nella stanza del capo, arriva una telefonata che annuncia una sparatoria in via Isidoro Calini. In sirena arrivo lì, strada vuota, sembrava un deserto, forte odore di polvere da sparo, una scena surreale, non una luce, non una persona, tutte le serrande chiuse. Vedo un’Alfetta, che seguiva una A112. Mi avvicino, apro lo sportello del lato guida e vedo una donna crivellata di colpi. Giro dall’altra parte, apro lo sportello, e vedo quest’uomo che non riuscivo a riconoscere, era riverso su una borsa. Tiro via la borsa, la apro, e vedo delle carte con l’intestazione della Prefettura, capì che era il generale Dalla Chiesa. Telefonai al mio capo e gli dissi che avevano ucciso il prefetto.
La vostra reazione all’omicidio di Dalla Chiesa e sua moglie?
Ricordo la grande fatica, subito dopo l’omicidio, per 3 giorni e 3 notti, sempre in giro a fare perquisizioni. Volevamo dare una risposta forte.
Ed arrivò?
Subito dopo fu approvata la legge Pio La Torre sul sequestro dei beni patimoniali. Arrivò come Alto commisario Emanuele De Francesco, che era contemporaneamente anche prefetto di Palermo e capo del Sisde. Volle creare subito l’Ufficio misure prevenzione per accertamenti e confisca dei beni. Fui tra i funzionari scelti per creare l’Ufficio misure di prevenzione, rappresentò l’Università per la polizia di tutta italia.
Le piacque il nuovo incarico?
Io che pensavo che il lavoro della polizia dovesse essere su strada, lì ho capito che il lavoro prima si fa sulle carte, e poi per strada. Conoscere i fascicoli è fondamentale “i fascicoli parlano” mi dicevano i colleghi più anziani. Pensavo si leggessero aprendo il faldone e cominciando a sfogliare le carte. Quegli stessi colleghi mi insegnarono che andavano aperti al contrario, cominciando dall’ultimo, che è cronologicamente il primo, dal certificato di nascita. Lì ho cominciato a capire il mestiere.
Non aveva desiderio di tornare in azione?
Dopo un anno di lavoro all’Ufficio misure di prevenzione, mi hanno scelto come vice dirigente della Digos, contemporaneamente mi affidarono la direzione dell’Ufficio stranieri, la direzione del Commissariato di Montello, e a scavalco, ossia quando mancava il titolare, quello di Portanuova. La domenica, unico giorno libero, mi sceglievano per “l’antiscavalcamento” allo stadio. Era tradizione locale che per seguire la partita della squadra di casa, ogni volta almeno tre quattro mila tifosi dovevano scavalcare un muro per entrare gratis. Ovviamente non si poteva consentire. Pensai che dovevo trovare una soluzione. Una domenica, anziché contrastarli prima che si avvicinassero al muro, ordinai di lasciarli passare. “Ma se passano è troppo tardi, poi come facciamo?” mi chiesero i miei uomini. Giunti a metà del muro, quando avevano ancora le gambe penzoloni, e potevano opporre una minima resistenza, ordinai la carica. Da quel giorno hanno ridotto drasticamente la tradizione.
Un Questore è un po’ come un allenatore, al quale auguriamo migliore fortuna di quello della Reggina. L’anno prossimo, in serie B, sarà meglio o peggio per l’ordine pubblico allo stadio?
Peggio. Il campionato è più lungo, ma le tifoserie sono più vicine. Quello della serie B è un campionato da non sottovalutare, anche per l’ordine pubblico.
Quando tornò alla Mobile?
Mi mandarono a Caltanissetta, alla Squadra mobile, come vice, ma nel giro di 3 mesi si accorsero della mia dimestichezza e mi diedero la dirigenza. Ho ereditato una Squadra mobile di 18 uomini e due Fiat Uno azzurre. Nemmeno di due colori diversi. Cominciai ad affrontare la guerra di mafia che poi sfociò nella strage di Gela, con 9 morti e 3 feriti in un sol colpo. Nel giro di 3 mesi operammo 24 arresti, prendendo mandanti ed esecutori materiali, tutti della stidda. Un’indagine durissima, massacrante, difficile, non avevamo né mezzi né tecnologia, tutto il nostro lavoro si basava sulle tecniche della scuola tradizionale, cioè confidenti, perquisizioni, conoscenza del territorio, degli uomini, controlli delle persone. Ricostruimmo tutto. Una cosca di cosa nostra voleva comandare su Gela, ma lì già esisteva una famiglia mafiosa non legata a cosa nostra. Giuseppe Madonia voleva scalzare “i stiddani”. Tutti furono condannati all’ergastolo, poi confermato in Cassazione.
Ha parlato di intercettazioni, come funzionavano allora?
C’erano ma erano rare, per farle c’erano le famose RT2000, una macchina enorme, per ascoltare bisognava far girare col dito il nastro, poter avere un telefono sotto controllo era cosa difficile, si andava a Roma alla Criminalpol per ritirare questi macchinari. La mia prima indagine con un telefono sotto controllo fu a Vallelunga Platameno, tra Caltanissetta e Palermo, dove comandava Frate Errigo, affiliato a cosa nostra. Personaggio poco conosciuto, gli misi il telefono sotto controllo per 6 mesi, senza che ci fosse mai una telefonata. Il procuratore, allora decideva lui, voleva interrompere, gli chiesi altri 15 giorni di proroga, e mi autorizzò.Al quattordicesimo giorno da scadenza, parte la telefonata,chiamano in New Jersey, negli Stati Uniti, telefonano al clan Gambino. Grazie a quella telefonata abbiamo scoperto un grosso traffico internazionale di stupefacenti. Ci credevo in quel telefono, soprattutto perché non era intestato a lui, ma a un vicino, e questo mi meravigliava.
Si meravigliò anche quando la cercò Leonardo Messina?
L’avevo arrestato per omicidio. Mentre era in carcere mi fece chiamare da un parente, mi disse che era disposto a parlare e mi indicò la struttura delle cosche. Con questi elementi andai al Nucleo centrale anticrimine, dove Antonio Manganeelli (l’attuale capo della polizia nda) era funzionario della prima divisione. Allora non c’era la legge sui pentiti, Manganelli, che aveva già trattato con Buscetta, venne in Sicilia per un colloquio con Leonardo Messina, il quale anche a lui confermò quanto detto a me. Da alcune risposte alle sue domande Manganelli capì che Leonardo Messina era un capo vero. Ci confidò un progetto per eliminarmi, e fui allontanato subito, mandato a Roma, con la famiglia, in albergo.
Riuscirono a tenerla un po’ lontano dalla Sicilia?
Mi mandarono alla Criminalpol a Milano, da vicequestore. Non mi piaceva starci, mi mancava troppo l’odore della Sicilia. Sono riuscito a tornare giù, e il procuratore Tinebra, di Caltanissetta, mi propose di gestire 14 pentiti. Interrogarli e cercare riscontri. Dopo sei mesi di lavoro ininterrotto, eseguimmo centinaia di arresti, non ricordo più nemmeno il numero. Dopo questo successo sono tornato a dirigere la Mobile di Caltanissetta, pur sotto scorta. Dopo poco mi mandarono a dirigere la Criminalpol di Catania, poi arrivò la promozione per meriti straordinari a primo dirigente. Dopo 4 anni di Criminalpol l’incarico a vicario nella Questura di Catania. Nove mesi dopo, a 47 anni, promosso questore a Ragusa. Da lì dopo due anni ad Agrigento, e dopo altri due anni alla Dia di Roma, capo del secondo reparto, le investigazioni. Anche Roma non mi piaceva, non c’è odore Sicilia, dopo pochi mesi ho voluto ritornare giù e mentre ero vicario interregionale di Catania, mi telefonò Manganelli, “vuoi andare a Caserta?”. Chiesi se c’era da lavorare. “Tantissimo” mi fu detto, “e allora mandamici” risposi.
Cosa ha trovato a Caserta?
L’inferno assoluto, problemi di criminalità assurdi. Ordine pubblico, 15 rapine al giorno, crisi spazzatura, buche, contadini, scioperi, autostrade bloccate. Poi lo scoppio della guerra di camorra. Una situazione incadescente, tant’è che proposi di utilizzare l’esercito al prefetto di Caserta, che condivise l’idea. Mandarono 500 uomini dell’esercito, e 400 uomini del reparto anticrimine di tutta Italia, tra polizia e carabinieri. Con 900 uomini nel giro di pochi giorni assegnai ad ogni squadra un compito, avevo suddiviso territorio, strade da controllare, avevamo militarizzato tutta l’area del triangolo della morte, Casal di Principe, Castel Volturno e Villa Literno.
Andò bene con l’esercito?
Dopo appena due giorni vi fu un tragico incidente a seguito di un inseguimento di una macchina che aveva forzato un posto di blocco. I nostri due ragazzi venivano da Genova, inseguono con la Subaru, la macchina vola in una scarpata e muoiono. Ho dovuto affrontare pure questa tragedia. Furono celebrati funerali di Stato, ai quali la comunità straniera ha partecipato con vestiti tradizionali. Ho apprezzato molto questo gesto. Continuammo secondo programma, e arrivarono i successi, sia di ordine pubblico che di polizia giudiziaria, e un calo repentino di omicidi e reati. Alla fine il lavoro svolto è stato riconosciuto anche a Casal di Principe, patria dei casalesi, dove mi hanno dato la cittadinanza onoraria, è significativo. È la prima che danno a un questore. L’ho accettata perché voluto dare un segnale di vicinanza, ho portato festa della polizia a Casale quando tutti me lo sconsigliavano. E invece un intero popolo ha partecipato, cinquemila persone. Ecco perché ho accettato la cittadinaza, e il sindaco Scopelliti, che è venuto fin lì, è stato molto affettuoso.
Ormai è qui da quasi due mesi, come si trova a Reggio?
Mi sono sentito subito a mio agio. E questo è un buon segnale. Reggio è una provincia che ha bisogno di tanto tanto impegno. A Caserta sono venuti a trovarmi gli industriali, gli imprenditori, il presidente di Confindustria. Abbiamo iniziato un percorso di incontri su pizzo. Cercavo di far capire che l’attività economica di un Paese non può dipendere dal grado di sicurezza, questo è un metodo che può andar bene in qualche stato africano, ma non certo in un paese civile. L’economia di un paese civile deve dipendere dalle regole di mercato. Non ho avuto grande successo, ma almeno la voglia di incontrarsi e colloquiare c’era. Qui tutto ciò non l’ho visto, sotto questo aspetto assoluta e totale indifferenza. Il mio compito qui a Reggio ritengo debba passare attraverso questo contatto con il mondo imprenditoriale. Il mondo imprenditoriale meridionale in genere è condizionato fortemente dalla criminalità organizzata, vuoi sotto l’aspetto dell’ingerenza nelle attività economiche, vuoi perché gestiscono attraverso prestanome, vuoi perché taglieggiano le imprese oneste. Ribadisco, l’economia di questo Paese non può dipendere dalla ‘ndrangheta. Per un imprenditore non c’è cosa più bella che fare impresa secondo le regole di mercato, misurandosi nella propria capacità di imprenditore, e non in maniera violenta o condizionata.
Nemmeno Confidustria l’ha cercata?
Confindustria non si è fatta sentire. Vorrà dire che magari sarò io ad andarci, a cercare un incontro, a cercare di trasmettere la fiducia che va trasmessa, perché so bene che un imprenditore che deve gsestire l’impresa in questo territorio ha molte dificoltà. E lo Stato deve garantire che ciò avvenga con le regole di mercato. Ma è un aspetto che non riguarda solo la polizia, il meridionale ha il difetto di delegare agli altri la soluzione dei problemi, invece di comprendere che è un diritto che nessuno ti può togliere, e te lo devi risolvere tu il problema, tutti devono fare la propria parte. In città, non vedo nemici, vedo cittadini che hanno bisogno, non parto dall’approccio che tutti sono delinquenti, poi c’è forte presenza mafiosa, e quella va colpita duramente. Ma non a chiacchiere. Proclami se ne sono fatti tantissimi. Il nostro lavoro, per avere successo, deve partire dal cuore, amare questa città, individuarne i problemi, capire le persone. So benissimo ci sono imprenditori onesti, vanno aiutati, e disonesti, che vanno individuati e trattati. Io gli stendo la mano, ma anche loro devono fare un gesto per avvicinarsi.
Siamo attrezzati bene, in città, per farcela?
C’è una fortissima coincidenza, oggi abbiamo a Reggio una delle migliori Procure d’Italia, conosco il valore di quei magistrati, con alcuni di loro ho già lavorato assieme. Ci crediamo. Un questore che conosce il suo mestiere, 30 anni di lavoro sulle spalle, un Procuratore, Giuseppe Pignatone, che ha esperienza notevolissima, capo della mobile, Renato Cortese, uno tra i migliori investigatori d’italia. Cosa vogliamo più? Ai miracoli credo poco, credo al lavoro, impegno, onestà intellettuale e alla parola data da un uomo.