Reggio Calabria. Nell’ambito del progetto “Museo della ndrangheta e della memoria”, giovedì 11 giugno 2009 alle ore 11,30 presso la Prefettura di Reggio Calabria, si terrà la conferenza stampa di presentazione delle iniziative del progetto. Saranno presenti il Prefetto S.E. Francesco Musolino, l’Assessore alle politiche sociali e giovanili della Provincia di Reggio Calabria, dott. Attilio Tucci, l’Assessore alle Politiche sociali del Comune di Reggio Calabria Avv. Tilde Minasi, il coordinatore del progetto dott. Claudio La Camera, il referente dell’Istituto Scolastico provinciale, prof.ssa Germina Buttitta, e i rappresentanti della consulta degli studenti della provincia di Reggio Calabria.
Il pomeriggio alle ore 15,30, presso la sala conferenze del Palazzo della Provincia di Reggio Calabria, il coordinamento del progetto presenterà il primo numero del volume “A Mani libere” realizzato con le scuole pilota della Provincia di Reggio Calabria. Interverrà il Procuratore Aggiunto della Provincia di Reggio Calabria dott. Nicola Gratteri
Segreteria Assessore dott. Attilio Tucci
Note: Il progetto Museo della ndrangheta e della memoria
La memoria
Si vuole proporre uno studio complesso sul polivalente sentimento dell’appartenenza che, con gradi e modalità diversi, è parte integrante dell’identità di ogni comunità. L’appartenere si basa necessariamente su una memoria ereditata e condivisa e su un sistema di immagini in continuo divenire che veicolano senso. La memoria, come insegnano studi multidisciplinari, non è una riproduzione ma è sempre una ricostruzione, e ogni esperienza che un singolo o un gruppo possono fare è sempre da mettere in relazione con i diversi passati con cui si è in grado di connettere tale esperienza. Se la memoria è memoria di rovine difficilmente si riuscirà a dare senso costruttivo alle cose che accadono, sia individualmente che collettivamente.
Un tratto culturale che certamente riguarda la calabresità è quello della ndrangheta. Anche al livello più superficiale possibile, privo di qualsiasi scientificità, il binomio Calabria-ndrangheta è passato sia nelle rappresentazioni collettive esogene (il modo in cui altri guardano i calabresi), sia nelle autorappresentazioni. Questo naturalmente non implica neanche lontanamente l’idea di connivenza diffusa o di partecipazione implicita, né di attitudine “naturale” o altri elementi forieri di razzismo. Il progetto vuole esaminare la storia e il mito di questa immagine, tanto sulla lunga durata che nella dimensione sincronica, sia effettuando ricerche sul campo, sia utilizzando la vasta bibliografia a riguardo. L’obiettivo è quello di fare i conti in modo razionale e cosciente con una trasmissione di valori che informa le nuove generazioni. Su questa base si cercherà di comprendere in che grado, agendo sui processi di inculturazione diretta e indiretta, ci si può inserire in questo processo di trasmissione di valori. In questa ottica viene pensata la misura del museo della ndrangheta nelle sue molteplici possibilità di fruizione: archivio della memoria, un luogo dove si possa distinguere con precisione la portata simbolica del fenomeno ma, soprattutto, la sua dimensione di impresa economica; istituzione in grado di tradurre una materia complessa in più linguaggi; un centro che si ponga in modo permanente come “emergenza”, per evitare i silenzi che sono funzionali a ogni mafia.
Identità anti-nadrangheta
Allo stato attuale esiste una cultura della ndrangheta che funziona. Accanto alla strapotenza economica, vige un codificato sistema di simboli che permette ai gruppi della criminalità di realizzare un alto grado di coerenza interna, di comunicare valori con facilità (recapitare una testa di un animale morto vale più di dieci lezioni universitarie), di trasmettere nel tempo un sapere, di proporre per inculturazione modelli di virilità e spregio del pericolo che affascinano a tutti i livelli. Le modalità che ha la ndrangheta di gestire silenzi carichi di significato, di utilizzare il sistema delle parentele spirituali, di manipolare a proprio uso un campionario di immagini tradizionali pur essendo calata pienamente nelle trame dell’economia globale, fanno parte di un sistema di segni culturalmente fondato e trasmissibile che, nel suo adattarsi continuo alle nuove esigenze dei tempi, costituisce pienamente quello che correttamente si definisce tradizione. Il sentimento di appartenenza che ipoteticamente dovrebbe accomunare la maggioranza antindrangheta è invece labilissimo. L’identità è sempre un criterio contrappositivo che si alimenta sulle linee di confine con l’alterità. Quella della ndrangheta è una cultura che, per la sua pervasività e per la sua capacità di operare in silenzio, per i più non è identificabile e quindi non risulta utile a provocare il sentimento di un’identità contrapposta. La stragrande parte della popolazione non avverte nei fatti il fiato sul collo dell’organizzazione criminale: per tanti la ndrangheta non è una vera minaccia, e vorrei dire che più che un clima di paura da noi si interiorizza un modello della pre-paura. Un atteggiamento pre-omertoso, o comunque di vaga disponibilità all’omissione, che è diventato un tratto caratteristico della nostra cultura.
Perché
Il compito di agire culturalmente contro una diffusa mentalità omertosa è sentito in modo particolare dalle persone che sono impegnate in prima linea nella lotta alla ndrangheta. Forze di polizia, prefetti, magistrati, ogni volta che conseguono un obiettivo sul campo, ripetono che l’azione di forza e di intelligence non avrà risultati decisivi fino a quando non si verificherà un cambiamento culturale. Un po’ tutte le forze politiche si uniscono a questo auspicio e tuttavia, oltre all’azione di associazioni meritorie, non si riesce a trovare traccia di un progetto culturale duraturo di lotta alla mentalità mafiosa, lotta che generalmente si limita a qualche manifestazione celebrativa in seguito a episodi criminali. Che non esistano immagini condivise su cui fondare un sentimento antindrangheta è altresì testimoniato da quei movimenti di protesta spontanei, anche ricchi di fermenti positivi, che non riescono a ricondursi a un discorso unitario, a un retroterra permanente che li radichi nel tempo e che ne trasmetta la memoria. Che crei tradizione.
Società dall’economia senescente non produrranno modelli culturali dell’entusiasmo. Temperie politiche collusive renderanno inefficaci gli sforzi di qualsiasi programma culturale. E tuttavia occorre produrre studi sistematici delle rappresentazioni che veicolano immagini della negatività, che concorrono a interiorizzare modelli inibenti. Non si parla solo della tradizione di una memoria della violenza e della sopraffazione (che è sempre parte minoritaria), ma anche di quelle dell’autosvalutazione, che producono una sorta di autorazzismo e, peggio, trasmettono l’idea dell’impossibilità del mutamento.
Il lavoro che il progetto si propone è di studio ma soprattutto di azione concreta. La lotta alla ndrangheta resta sempre azione di polizia, ed è una lotta veloce, che deve essere pronta a rispondere a una realtà proteiforme che combina alcune logiche tradizionali con il mercato globale. La lotta della cultura è azione che deve essere pensata sulla lunga durata, è lotta di piantatori di alberi. È necessaria e deve essere concretissima, permanente, perché solo nel tempo, e forse solo per le generazioni che verranno, si può tentare di costruire una memoria critica differente. La ndrangheta è il problema a cui deve rispondere la polizia. La cultura deve avversare lo stereotipo dell’impossibilità di cambiare, la sindrome del “tutto è compiuto”, una memoria che non risulta utile per immaginare un altro futuro.
Vivere in qualsiasi angolo di mondo significa usufruire già alla nascita di un sapere situato, localizzato in un luogo e in un tempo storico preciso. L’interiorizzazione di modelli culturali condivisi risponde a molteplici logiche, che vanno dall’inculturazione diretta (la scuola), a quella indiretta (tutto quello che respiriamo nella nostra cultura). La memoria si eredita e si ricostruisce di continuo, ma è sempre un processo di selezione che può essere indirizzato.
Conoscere davvero
La conoscenza è il punto chiave, perché la mafia nella regione non la si conosce. Se con questa parola intendiamo la capacità di descrivere un fatto e analizzarlo, possiamo affermare che la ndrangheta, almeno dalla stragrande parte della popolazione, non è conosciuta. Ciò che si possiede è un sapere parziale appreso indirettamente. Tutte le nozioni che si apprendono in questo modo difficilmente diventano conoscenza. Anche l’immagine della ndrangheta è solo una memoria passiva, mai assunta criticamente, che resta costante in generazioni differenti senza che uno shock culturale riesca a farla assumere come problema cogente.
Occorre invece reificare il problema, renderlo “cosa” analizzabile. Occorre spiegare con le parole giuste ai bambini cosa impedisce il progresso economico di questa regione, e bisogna farlo a scuola. Occorre chiedere ai ragazzi di elaborare idee razionali del fenomeno. Tutte le altre esperienze di conoscenza che altrimenti possono fare del fenomeno sono esperienze che costruiscono le logiche almeno dell’omissione.
Misure di intervento concrete
IIl progetto si propone di realizzare le seguenti misure: edificazione del museo; disseminazione sul territorio dei segni della cultura della legalità; modifica dei libri di testo; inserimento nel ciclo cerimoniale dell’anno di giornate che permanentemente siano dedicate al tema; creazione di master per formare i formatori antindrangheta che opereranno già dalle scuole elementari; organizzazione di convegni per confrontare esperienze diverse; promozione di lavori cinematografici e teatrali che veicolino il nuovo messaggio; coinvolgimento dei giovani nell’elaborazione del linguaggio migliore per socializzare queste iniziative.