
di Noemi Azzurra Barbuto
Reggio Calabria. «Un sistema che sta per scoppiare». È con queste parole che Maria Carmela Longo, direttrice del carcere di San Pietro di Reggio Calabria, descrive lo stato attuale del sistema penitenziario nazionale, dipingendo una situazione di collasso, un meccanismo che rischia di saltare, che non regge più.
Il livello di democraticità di un Paese è direttamente proporzionale alla qualità del funzionamento del suo sistema penitenziario, ossia al modo in cui garantisce e tutela i diritti di coloro che subiscono limitazioni alla propria libertà personale.
Il vilipendio dei diritti umani dei detenuti, la mancanza di considerazione nei loro confronti, l’indifferenza da parte della società civile, le condizioni di indigenza e di disumanità nelle quali sono costretti a vivere, infatti, si accompagnano spesso ad una generale assenza di rispetto delle libertà fondamentali e ad un sistema culturale deficitario, o fallimentare.
I gulag staliniani, le galere turche, quelle cinesi, sono esempi estremi di carceri tipiche di sistemi politici antidemocratici, sono nomi che, evocati, fanno rabbrividire, realtà che purtroppo non appartengono solo al passato. Ma esistono delle eccezioni, ovvero carceri inumane di Paesi democratici. Un esempio emblematico è rappresentato dal carcere statunitense situato nella Baia cubana di Guantanamo, dove sarebbero rinchiuse 250 persone collegate, secondo il governo americano, ad attività terroristiche.
Oggi anche nel nostro Paese sta emergendo sempre più una situazione di grave disagio e sofferenza da parte degli istituti penitenziari, all’interno dei quali la vita dei detenuti diventa sempre più dura e vuota, tanto che aumenta progressivamente il numero dei suicidi, delle proteste e persino delle evasioni. Fenomeno quest’ultimo quasi del tutto scomparso fino a poco tempo fa e che adesso si ripresenta con prepotenza, soprattutto a causa della carenza di efficaci e costosi sistemi di controllo e di personale deputato alla vigilanza, nonché del disagio diffuso dei detenuti, costretti a convivere in spazi sempre più ristretti ed inadeguati.
Si parla di “allarme nazionale”: a fronte di una capacità di 43.074 ospiti, sono 65.225 i detenuti nelle carceri italiane, di questi 24.085 sono stranieri, 31.346 in attesa di giudizio; da gennaio ad oggi si sono verificati 60 suicidi, 146 i detenuti morti in carcere quest’anno. Questi sono alcuni dei numeri diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Il numero dei suicidi aumenta di pari passo con l’aumento dei detenuti e con la diminuzione degli agenti di polizia penitenziaria: «Se ci fossero più esperti, più personale e maggiori risorse economiche per fare lavorare i detenuti – afferma la direttrice Maria Carmela Longo – queste tragedie non si verificherebbero con una tale frequenza». Anche nel carcere reggino di San Pietro due casi di suicidio da gennaio, tra questi un ragazzo di 20 anni.
La direttrice esprime inoltre la sua amarezza per aver dovuto interrompere tutte le attività dei detenuti, non solo quelle lavorative, ma anche alcuni programmi importanti, tra i quali il “progetto avvocato amico”, che forniva consulenza legale gratuita ai tanti detenuti che non hanno la possibilità di pagarla, sospeso per la mancanza di un locale idoneo a questo scopo; nonché i lavori per la costruzione di un’ala destinata all’accoglienza dei parenti in visita, spesso costretti ad aspettare fuori dai cancelli per ore ed esposti alle intemperie. Ma non stupisce tutto questo, dal momento che «non si riesce a garantire neanche il necessario. A stento vengono realizzati i servizi essenziali di cucina, lavanderia e le pulizie».
Non sono soltanto i detenuti a ricorrere al suicidio, il fenomeno è in aumento anche tra il personale penitenziario. «È come un bollettino di guerra», afferma Longo. Ma perché succede tutto questo? «È un lavoro duro, troppo duro, che grava spesso su una sola persona, ed è un lavoro che coinvolge inevitabilmente dal punto di vista emotivo – continua la direttrice – non è facile vedere una persona che si squarta né trovarsi davanti un ragazzo impiccato». Con un sorriso, come se volesse mitigare la violenza delle immagini appena evocate, Maria Carmela Longo si scusa per la crudezza delle sue parole, non esiste altro modo per descrivere questa realtà.
Il carcere cambia per sempre. A volte in meglio. A volte in peggio. A volte diventi più duro. A volte, paradossalmente, più umano. Cambia chi ci deve vivere. Cambia chi ci lavora.
La direttrice Longo, “per deformazione professionale”, si occupa di tanti problemi, di tante richieste, di tanti impegni, tutti in una volta, secondo un ordine di priorità soggetto a cambiare da un minuto all’altro. Ora risponde alle nostre domande, un attimo dopo corre fuori per un’emergenza, una delle tante di ogni giorno. Alla fine, risolve ogni cosa, ma il senso di dolore resta. Quello non si può eliminare, purtroppo.
In tanti anni di esperienza ha imparato a sviluppare anche la creatività, e si sa quanto sia utile nei periodi di magra. «Ci tocca inventarci di tutto – confessa – non ci sono materassi. Siamo riusciti ad averne 50, devono ancora arrivare, ma i detenuti sono 300, così ho deciso di dare la priorità ai detenuti che ne hanno più bisogno per motivi di salute. Spesso ci troviamo nella situazione simile a quella in cui si trova un padre che ha 5 figli e le risorse per vestirne uno solo. Noi cerchiamo di amministrare secondo il principio del buon padre di famiglia, questo è il nostro dovere, ma non è facile».
Sovraffollamento (il 30% dei detenuti sono stranieri di tutte le nazionalità), carenza di agenti, condizioni di vita difficili, mancanza di risorse economiche, strutture inadeguate e vecchie, sono questi i problemi più urgenti del carcere di Reggio Calabria, difficoltà comuni alla maggior parte degli istituti penitenziari italiani.
Qual è l’esigenza prioritaria adesso? Secondo la direttrice, sarebbe necessario riavere i 50 agenti di cui l’istituto è stato privato e che sono attualmente impegnati in altre sedi. E aggiunge: «Non sto chiedendo niente di più, soltanto di ripristinare la situazione precedente».
Le violenze all’interno delle carceri, sia tra i detenuti sia da parte del personale nei confronti dei detenuti, costituiscono una realtà o sono soltanto un sospetto dell’opinione pubblica? «Le violenze – spiega – accadono in casa, per strada, in qualsiasi luogo, e siamo tutti esposti. Non è solo in carcere, questa brutta bestia, che si verificano episodi di violenza. Il carcere è lo specchio della società, qui si svolgono le stesse dinamiche. In ogni famiglia si litiga per motivi banali di convivenza, sebbene ci siano il vincolo di sangue e l’amore. Qui le persone, invece, non si sono scelte, non c’è la possibilità di uscire o di cambiare stanza quando nascono delle tensioni, spesso in uno spazio adeguato per due persone ce ne stanno quattro, con abitudini, cultura, educazione, nazionalità che non hanno nulla a che fare. È inevitabile che a volte nasca la violenza”. E a proposito degli abusi di potere da parte del personale? «Purtroppo la violenza è nella natura dell’essere umano, un istinto primordiale e sempre sbagliato. Essendo qualcosa di umano questi fenomeni possono verificarsi, ma vanno controllati e severamente puniti. Non devono essere tollerati».
Difficile dire se, quando si muore in carcere, si muore di carcere? «Quando una persona decide di farla finita – conclude Maria Carmela Longo – ha mille motivi nella testa che noi non conosciamo. Posso immaginare che si possa morire di carcere. Certo, non lo posso escludere. Le volte in cui cerco di immedesimarmi nella condizione dei detenuti subentra in me uno stato di profonda tristezza».
Rispettare i diritti umani dei detenuti, garantire loro la possibilità di lavorare, di svolgere attività ricreative, finalizzate alla rieducazione e al reinserimento sociale, non è nulla di straordinario, ma dovrebbe essere la normalità, ciò non dovrebbe essere in discussione in un regime democratico. Attualmente le cose non stanno esattamente così in Italia.