Reggio Calabria. Nell’ambito delle attività condotte dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, per contrastare lo scavo clandestino ed il traffico internazionale di reperti archeologici, tra i vari compiti istituzionali, sono stati costantemente monitorati oggetti posti in vendita in mercati, esercizi commerciali e case d’asta sia in Italia che all’estero. Tali controlli hanno consentito di appurare che numerosissimi reperti, di sicura provenienza italiana, sono stati messi in vendita senza alcuna indicazione sulla loro legittima provenienza. Una prima rogatoria internazionale, richiesta dalla Procura della Repubblica di Roma ed eseguita a Londra, ha permesso ai carabinieri di verificare che il fulcro del mercato archeologico, in quegli anni, sembrava essere la Svizzera ed in particolare che una semplice società commerciale anonima, allocata nel porto franco di Ginevra ma con sede fiscale a Panama, commercializzava migliaia di reperti italiani in tutto il mondo. Pertanto, nel 1995, un controllo unitamente alla polizia svizzera nei magazzini del porto franco di Ginevra ha permesso di accertare che la società aveva effettivamente la sua sede operativa ed espositiva in quei caveau blindati, come un vero e proprio “atelier” di antichità.
Sono stati sequestrati, quindi, migliaia di reperti di varie tipologie ed epoche, di certa provenienza italiana e la relativa documentazione fotografica dei reperti presenti in quel magazzino e di altri che, in quel momento, non risultavano inventariati.
L’entità della documentazione ha messo in evidenza la vastità del commercio posto in essere da questa società che, durante la perquisizione, si è socperta essere di proprietà di un cittadino italiano conosciuto agli operatori del settore come importante trafficante ma, fino ad allora, sfuggito alle varie indagini svolte nello specifico settore. Le stesse fotografie ritraevano reperti “inediti”, ancora sporchi di terra, con evidenti incrostazioni tali da ricondurli a recentissime ricerche archeologiche clandestine.
L’analisi della documentazione ha allargato gli orizzonti investigativi ed ha portato le indagini in varie parti del mondo: Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, Giappone, Australia, ed in particolare negli Stati Uniti d’America.
Una fitta rete di connivenze tra ricettatori, mercanti, antiquari, case d’asta, collezionisti senza scrupoli e responsabili di importanti musei, si è manifestata agli inquirenti come un fenomeno da arginare con fermezza per non rischiare di perdere altro patrimonio culturale.
A seguito delle investigazioni dei carabinieri è scaturita una vicenda giudiziaria da parte della Procura di Roma, che ha individuato precise responsabilità a carico di un’organizzazione per delinquere ed in particolare dell’ex curatrice di un importante museo americano. Mentre la vicenda processuale era ancora in corso, i responsabili di importanti istituzioni museali americane, nell’ottica di un codice deontologico per nuove acquisizioni, hanno intrepreso contatti con il Ministero per i Beni Culturali ed i Carabinieri stessi, allo scopo di verificare la lecita provenienza dei beni in possesso delle loro collezioni. In quest’ottica sono state studiate le modalità per una lecita acquisizione di reperti archeologici basata anche su un reciproco scambio di informazioni.
Il Fine Arts Museum di Boston è stato il primo a concludere i negoziati, intrapresi con una commissione, appositamente creata ed incaricata di raccogliere gli elementi probatori che i Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale avevano già trasmesso all’autorità giudiziaria, decidendo volontariamente di trasferire in Italia alcuni beni d’arte.
Successivamente anche alcuni antiquari e collezionisti esteri, uniformandosi alle procedure adottate dai musei americani ed alla “nuova” etica che, a seguito delle restituzioni, si è diffusa nel mondo, hanno volontariamente restituito beni raffigurati nella documentazione sequestrata a Ginevra ed anche oggetti trafugati da musei italiani. Tra questi vi era l’anfora calcidese del VI secolo A.C., di dimensioni 29 (H) x 19 cm.
L’attività investigativa del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e l’attenta sensibilità del Ministero per i Beni Culturali ha certamente contribuito ad arginare l’attività di scavo clandestino sensibilizzando l’opinione pubblica ad una più attenta considerazione del proprio patrimonio che costituisce la storia e l’anima di una Nazione.
L’anfora calcidese è rientrata materialmente in Italia nel febbraio del 2008, ed è la prima volta che viene presentata pubblicamente in Calabria, sua terra di origine. Un altro importante reperto, ha annunciato il Comandante dei Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale Cosenza, Raffaele Giovinazzo, che ha competenza in tutta la Calabria, sarà riconsegnato la prossima settimana a Crotone.
«L’impegno dell’Arma è molto importante – ha sottolineato la soprintendente Simonetta Bonomi – è un rapporto storico che tutti i funzionari e dirigenti dei Beni Culturali hanno avuto coi singoli Nuclei di Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, unico esempio al mondo, impegnato accanto ai funzionari e dirienti beni a proteggere il nostro patimonio».
La Bonomi ha poi illustrato il reperto, proveniente da una collezione privata: del VI secolo A.C., a figure nere, appartiene alla classe calcidese perché alcuni esemplari dello stesso tipo recano iscrizioni che rimandano, per alfabeto e aspetti lessicali, all’ambito calcidese (il riferimento è a centro dell’antica Grecia, Calcide, l’isola dei coloni che fondarono Reggio Calabria e Messina). Sull’anfora è presente una ricca decorazione vegetale sulla spalla, con un certo spirito calligrafico, elementi vegetali incisi con una punta sottile, ritocchi di colore rosso e bianco per rendere più vivace la rappresentazione. Il motivo centrale è rappresentato da un fregio continuo di cavalieri in corsa, non connotati da attributi particolari, se non i rapaci che si inframmezzano ai cavalieri, per i quali si possono dare molte interpretazioni: come una gara di corse coi cavalli in occasione di particolari cerimonie, anche funebri, di personaggi importanti. Sotto alla fascia centrale vi sono delle roselline.
«Non credo vi sia certezza che sia stato scavato in Calabria – ha chiarito la soprintendente – ma appartiene a una classe di ceramica antica che gli studiosi attribuiscono a Reggio Calabria. Nel futuro allestimento del nuovo Museo troveremo modo di dare il giusto spazio».
Il futuro dei Bronzi di Riace.
A margine della conferenza stampa, la soprintendente Bononi ha risposto anche alle domande dei cronisti sui due Guerrieri: «Intanto sono ancora a palazzo Piacentini, stiamo studiando con l’Istituto superiore per il restauro e la conservazione le attività, le forniture, per allestire un laboratorio visitabile nella sede offerta dal Consiglio regionale della Calabria, come annunciato dal presidente Giuseppe Bova. Un’offerta che è stata raccolta dalla Soprintendenza, e il Ministero non ha posto veti. La prossima settimana verranno tecnici per vedere la sala Monteleone, che dovrebbe essere la sede dove i Bronzi passeranno il checkup necessario, ma non saranno soli, saranno sottopisti a verifica e restauri anche altri pezzi. È chiaro che a Museo terminato i Bronzi tornano a casa loro, non andranno in giro per mostre, non sono previsti viaggi fuori da Reggio. Ci sarà da vedere se ci sarà spazio per un’esposizione tra fine restauro e il loro ritorno a palazzo Piacentini. Tutto sommato è una vicenda che si conclude positivamente».