I presunti rapporti di Gioacchino Campolo con la ‘ndrangheta

di Fabio Papalia
Gioacchino Campolo, il “re dei videopoker” non “giocava” da solo ma era protetto e spalleggiato dalla ‘ndrangheta. È questa, sinteticamente, una delle accuse che gli muove la Procura della Repubblica, che oggi ha vinto il terzo “round” del game ingaggiato con il 71enne imprenditore già due anni fa. In due anni, infatti, Campolo si è visto sequestrare in due tranche, 25 e 35 milioni di beni. Noccioline in confronto alla botta finale con l’operazione Les Diables, che fa salire il montepremi a 330 milioni di euro, dei quali 226 milioni costituiti da ben 260 unità immobiliari. Un impero costruito monetina dopo monetina, da fare invidia a Paperon de’ Paperoni: secondo l’accusa il “tesoro” di Campolo è costituito in larghissima parte dagli incassi non dichiarati al fisco che derivavano dalle macchinette videopoker.
Campolo ha fatto tutto da solo? Secondo la Procura no. Il procuratore Giuseppe Pignatone ha fondato la sua richiesta di sequestro anticipato in gran parte sui risultati istruttori acquisiti nei due procedimenti penali (n. 881/07 RGNR DDA e 7769/09 RGNR DDA) nei quali Campolo è stato indagato.
Secondo la pubblica accusa Campolo avrebbe costantemente agito secondo logiche criminali, utilizzando la ditta individuale Are, di cui è titolare e il cui oggetto sociale consiste nella gestione e nel noleggio di videogiochi; avrebbe costretto numerosi dipendenti ad accettare condizioni di lavoro e trattamenti retributivi inferiori rispetto alla normativa e ai contratti collettivi vigenti; avrebbe trasformato alcuni degli apparecchi da gioco da lui gestiti o forniti in vere e proprie slot machine, riuscendo a reiterare frodi fiscali e accumulare enormi somme di denaro ignote al fisco.
Quanto al regime di “monopolio”, però, che gli è valso l’appellativo di “re dei videpoker”, la Procura ritiene che Campolo si sia guadagnato le larghissime fette di mercato e quindi la supremazia “servendosi strumentalmente dei suoi collaudati legami con vari esponenti della ‘ndrangheta reggina”.
A fare il nome di Campolo sono innanzitutto le dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia: Paolo Iannò (già componente della cosca Condello), Antonino Fiume e Giovanni Battista Fracapane (già componenti della cosca De Stefano). Iannò ha raccontato di avere ricevuto da Campolo (che gli era stato segnalato da Filippo Serraino) la fornitura gratuita di un paio di apparecchi programmati per il gioco del videopoker e muniti di un’opzione che consentiva di occultare questa caratteristica in caso di controlli sgraditi.
Fiume, invece, ha raccontato della particolare vicinanza di Campolo ai De Stefano, e in particolare al boss Orazio De Stefano, e della protezione di cui godeva proprio per tale ragione. Protezione che Campolo avrebbe ricambiato, favorendo i De Stefano in vari modi, dal cambio di assegni ad altro.
Vicinanza confermata da Fracapane, il quale ha aggiunto che fu proprio Orazio De Stefano a bloccare Mario Audino, il boss del quartiere di San Giovannello, il quale voleva assassinare Gioacchino Campolo per consentire a Giovanni Tegano e Giuseppe La Villa di prendere il suo posto nel settore dei videogiochi.
Ma non è tutto. La Procura della Repubblica ha posto l’attenzione anche sui rapporti definiti “di frequentazione e spesso anche di condivisione di interessi economici o affaristici” tra Campolo e soggetti accreditati, sulla base dei loro trascorsi giudiziari, di fare parte integrante dell’organigramma di cosche reggine. Tra questi spiccano Giorgio De Stefano e Paolo Romeo (riconosciuto responsabile in modo definitivo di concorso in associazione mafiosa nel processo Olimpia 1 – entrambi avvocati ed utilizzatori a titolo di locazione o di comodato di due lussuosi immobili siti nel centro di Reggio Calabria di proprietà di Campolo), Giuseppe De Stefano (figlio del defunto boss Paolo De Stefano e condannato in via definitiva per associazione mafiosa, tentata estorsione, tentata rapina e detenzione illegale di armi), Orazio De Stefano (fratello dei boss Giorgio e Paolo De Stefano, capi riconosciuti dell’omonima cosca e a sua volta leader della medesima, arrestato nel febbraio 2009 dopo una lunga latitanza), Natale Iannì (accreditato di essere uomo fidato dei De Stefano), Antonino Zindato (esponente di spicco della cosca Libri-Zindato), i fratelli Mario e Franco Audino (esponenti di vertice dell’omonima cosca del quartiere reggino di San Giovannello).
Valutazioni che, fatte salve ovviamente le decisioni della magistratura giudicante, sono state condivise anche dal presidente del Tribunale di Reggio Calabria – Sezione misure di prevenzione.
Nell’autorizzare il sequestro preventivo, infatti, nel vagliare tutte le prove fornite dall’accusa il presidente Vincenzo Giglio annota in merito ai rapporti con la ‘ndrangheta come “il Campolo, lungi dall’agire come un ordinario imprenditore e fondare quindi la sua attività, la sua presenza sul mercato ed i suoi profitti sull’ossequio alla legge e sulla leale concorrenza con gli altri soggetti attivi nel medesimo settore, ha inteso invece servirsi costantemente e sistematicamente dei vantaggi illeciti derivanti dalla sua condizione di soggetto colluso con la ‘ndrangheta e quindi protetto e spalleggiata da questa”.
Più in generale, accogliendo le considerazioni della proposta del Procuratore, il presidente Giglio ha quindi dato il via alla maxi-operazione di sequestro, ponendo fine così a un’indagine che ha visto la Guardia di Finanza impegnata a ricostruire l’elenco delle 260 unità immobiliari da aggredire. Come la biglia impazzita di un flipper, in qualunque via prestigiosa della città la lente di ingrandimento della Finanza di posasse, c’era un appartamento o un magazzino di Campolo. A quota 330 milioni, però, non è scattato il “bonus” per il re dei videopoker.

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