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Home Rubriche Urbanistica

Dalla Reggio delle barricate a Reggio Calabria Città Metropolitana, passando per il federalismo

by newz
9 Settembre 2010
in Urbanistica
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Felice Manti, del Giornale, ci fornisce una lettura proto federalista dei fatti di Reggio di 40 anni fa. Una prospettiva intrigante sulla quale riflettere sulla straordinaria occasione rappresentata dalla promozione di Reggio Calabria a “Città Metropolitana”.

(E.C.)

Dalla Reggio delle barricate a Reggio Calabria Città Metropolitana, passando per il federalismo

di Felice Manti

C’è una pagina di storia italiana scritta con il sangue e cancellata dalla memoria. Il 14 luglio di 40 anni fa Reggio Calabria alzava le barricate contro la decisione del governo di spostare il capoluogo di Regione a Catanzaro. Cinque morti, 2mila feriti, 800 arresti, danni per miliardi di lire, armerie depredate e un assalto alla Questura che non si trasformò in tragedia grazie alla tempra del questore Emilio Santillo. Che davanti ai rivoltosi armati di molotov disse ai suoi uomini: «Possono bruciarci vivi ma noi non spareremo un colpo».

Per la prima volta nel Dopoguerra in Occidente i carri armati entrarono in un pezzo d’Europa che ancora oggi fatica a dirsi Italia. La decisione del governo di allora, guidato dal senatore a vita Emilio Colombo, soffocò mortalmente il primo (e unico) afflato «federalista» del Sud e diede un colpo forse mortale al tentativo di accorciare le distanze con il Nord. Colombo spedì a Reggio 2mila soldati a luglio, altri 6mila a settembre e 3mila a ottobre, a bordo di cingolati e mezzi di artiglieria leggera.

Barricate per le strade, negozi chiusi, ferrovie e autostrade interrotte, serrande abbassate nelle scuole e nelle banche. Altro che Sud indolente e cialtrone: la rivolta di Reggio che per mesi mise a ferro e fuoco la città era ispirata da una pervicace volontà di autodeterminazione. In ballo non c’era solo il pennacchio del capoluogo né la rincorsa al treno del boom economico, ma il nodo irrisolto della questione meridionale: quello della politica. I reggini si sentivano traditi dai loro amministratori a Roma. E poco importa se l’Msi di Ciccio Franco provò a mettere un cappello nero sulla rivolta. Il rimedio si dimostrò peggiore del male, e fu la fine dei sogni. Pentapartito, sindacati e sinistra prontamente bollarono come «fascista» la Rivolta. E la decisione di usare il pugno di ferro fu forse inevitabile. Il racconto di quei giorni è racchiuso nel libro fotografico “Fuori dalle barricate” di Fabio Cuzzola (Città del Sole editore) e in un film (Liberarsi, figli di una rivoluzione minore).

Ma i misteri della Rivolta sono ancora irrisolti. Sagrestie piene di armi, sequestrate dall’Arcivescovo monsignor Giovanni Ferro per evitare il peggio, giornalisti strappati alla folla inferocita, la solita manina dell’eversione nera (il principe Junio Valerio Borghese sbarcò a Reggio l’8 agosto 1970), il ruolo della ’ndrangheta nell’attentato al treno Palermo-Torino a Gioia Tauro il 22 luglio (sei morti e decine di feriti), lo strano incidente che portò alla morte di cinque anarchici in possesso di un dossier sulla strage ferroviaria. Lo slogan dannunziano «Boia chi molla è il grido di battaglia» riecheggiava intanto per le strade. Sui muri dei quartieri più popolosi comparvero le prime scritte «autonomiste», su una barricata ubicata nel quartiere di Sbarre sventola una bandiera azzurra con la scritta «Repubblica di Sbarre».

Quando la rivolta è sedata, Colombo promette 70 miliardi di investimenti, la nascita del Quinto polo siderurgico a Gioia Tauro, una fabbrica a Saline Joniche e lo sdoppiamento della Regione (la giunta a Catanzaro, la sede del consiglio a Reggio). Un accordo, si disse, messo nero su bianco in una famigerata cena del gotha politico calabrese. Ma la liturgia assistenzialista della Prima repubblica partorì le solite cattedrali nel deserto e uno spreco di denaro pubblico. Il guanto di velluto e il pugno di ferro. Non è un caso che ancora oggi questo pezzo d’Italia sia ostaggio della potentissima ’ndrangheta e non creda più alle lusinghe romane. L’autostrada Salerno-Reggio è il vergognoso simbolo dell’eterna incompiuta, il Ponte sullo Stretto rischia drammaticamente di restare un sogno. L’unico nero che sopravvive ha a che fare con l’economia sommersa e controllata dalle ’ndrine e da commercianti compiacenti, come ha rivelato un’inchiesta della Procura. Ma la voglia di ribellarsi non è ancora sopita. A parlare di federalismo si rischia il linciaggio, anche se a microfoni spenti più d’uno confessa: «Se fossi al Nord voterei Lega». Tra la Padania e la Repubblica di Sbarre non c’è poi tanta differenza.

Questo è il mio articolo sui Moti di Reggio Calabria pubblicato dal Giornale il 15 luglio scorso, nel giorno del 40° anniversario della rivolta per il capoluogo. Una provocazione? E perché? Il federalismo non è nato con la Lega Nord e non morirà con Umberto Bossi, che ha avuto il merito storico di porre la questione settentrionale. Lasciamo perdere i pregiudizi e quella puzza di razzismo che solitamente identifica il Carroccio al di qua della Padania. Il folklore nella vita politica, dalle magliette di Che Guevara ai busti di Mussolini all’ampolla del Po questo è, e questo rimane. Serve, ma non basta se non c’è altro dietro. Chi dice il contrario o non ha mai fatto politica o mente, sapendo di mentire. Mente per nascondere una sacrosanta verità: il federalismo fiscale, accompagnato da una classe politica all’altezza di questa sfida, è l’unica forma di sviluppo possibile per il Sud.

Le macerie del centralismo romano, lo sappiamo, ce le abbiamo sotto gli occhi. Saline, Gioia Tauro e quella promessa di esportare l’industrializzazione così come oggi qualcuno millanta di voler fare in Medioriente con la democrazia, non sono solo fotografie sbiadite del tempo che fu. Quella polpetta avvelenata ci è stata ignobilmente servita su un piatto di argento finto, e i responsabili di quello scempio non pagheranno mai abbastanza, né umanamente né politicamente, il prezzo che ha dovuto scontare questo lembo di Mediterraneo, rimasto orfano delle migliori intelligenze e delle braccia più forti, emigrate al Nord in cerca di lavoro. A Salerno dicono: «Se e ma erano due scemi»: perché il rancore e le recriminazioni non servono a nulla, meno che mai a riscrivere la Storia. Ma se facessimo gli scemi, e se follemente provassimo a proiettare in uno scenario realmente federalista quei fatti di quarant’anni fa? Come sarebbe andata a finire?

Appare evidentemente chiaro a tutti che finché sarà Roma a scegliere la medicina giusta per questo Mezzogiorno malato, il Sud non guarirà mai dall’alibi «tanto, decidono tutto a Roma». E la recente letteratura politica è lì a dimostrarcelo. La medicina che salverà Reggio e La Calabria è l’autodeterminazione che allora, quarant’anni fa, ha animato improvvisamente uomini e donne di ogni classe sociale. La risposta a quella istanza che oggi anima il Nord allora è stata pesante come un carro armato e asfissiante come un lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo, e ha creato l’humus dove la malapianta della ’ndrangheta ha rapidamente attecchito. La sfida dei prossimi quarant’anni deve ripartire da quella lezione.

Autodeterminazione, dunque. Ma che cosa vuol dire, in soldoni? Vuol dire banalmente che anziché eleggere un «mediatore» che fa su e giù da Roma con un sostanziale mandato in bianco e un papello di promesse da mantenere, la gente vota un amministratore di condominio, che risponde in solido dei soldi versati dai condomini e che a loro deve rendere conto. Senza alibi, senza teatrini. Vuol dire banalmente che se l’autostrada è piena di buche nessuno potrà più dire «non è colpa mia». In gergo si chiama «etica della responsabilità»: due paroloni che vogliono dire tutto e niente. Tra il tutto e il niente c’è però in gioco la sopravvivenza di una classe politica, la loro esistenza politica prima ancora che la nostra, che oggi si nutre di questi alibi. I soldi dei calabresi gestiti dai calabresi. Una scommessa al buio? Forse no.

So già la prima, ovvia ma anche sterile controindicazione. I soldi sono pochini. Meglio. Il buon padre di famiglia, così come il buon amministratore, si vede nelle ristrettezze, non certo nell’opulenza. Se non ci fosse mamma Roma a saldare i debiti della sanità calabrese, chi pagherebbe? Con un portafoglio semivuoto dire «no» ai signori della sanità, alle lobby del Nord che strangolano la nostra economia, ai presunti imprenditori illuminati che vengono a vomitare la loro spocchia e poi fanno affari con le cosche non sarebbe un atto di coraggio ma una ineluttabile necessità. Perché la spesa pubblica è una bestia che va affamata, non ingrassata come invece avviene oggi in cambio di un mero tornaconto elettorale, fine a se stesso. Il federalismo fiscale, con le opportune garanzie e le necessarie tutele perequative indispensabili per non allagare il divario esistente tra due, tre, venti Italie che marciano a velocità diverse, assomiglia sempre di più all’unica medicina possibile.

Federalismo fiscale vuol dire anche accompagnare lo sviluppo di un’area debole come quella calabrese con misure impositive nuove e un sistema decisionale che, in un vestito come la Città Metropolitana che Reggio è destinata, prima o poi, a indossare: sgravi alle imprese, sconti sulle tasse, incentivi all’investimento, un sistema di deduzioni e detrazioni per i neo assunti che vogliono mettere su famiglia. In fondo si tratta di rinunciare a qualche euro di tasse per ingolosire chi, già oggi, si è stufato della costosa globalizzazione e chi, già oggi, capisce che forse investire al Sud è paradossalmente più conveniente che delocalizzare la produzione in Romania piuttosto che in India. Soprattutto perché, per una volta, abbiamo la fortuna di trovarci nell’ombelico del Nuovo Mondo, in quel Mediterraneo solcato giornalmente da milioni di container provenienti dalle economie emergenti. E perché basterebbe così poco per diventare più ricchi di quel Nord che non vorrebbe più avere a che fare con noi.

Ripeschiamo nuovamente, dal cassetto dei sogni impossibili, quegli scemi di se e ma. Immaginiamo che il porto di Gioia Tauro catturi anche una piccola parte di quell’Iva che oggi finisce a Livorno o a Genova. Parliamo, a naso, di un miliardo di euro l’anno che chi trasporta container deve comunque pagare in Italia. Qui o in Liguria, per loro non fa differenza. Per noi decisamente sì. Immaginiamo ancora che, oltre all’Iva, una parte di quelle merci (siano esse scarpe, vestiti o computer) anziché andare in giro per l’Europa si fermino sullo Stretto. Immaginiamoci come il posto giusto per raccogliere prodotti non finiti provenienti dai mille capi del mondo, assemblarli e rivenderli in Europa, magari a un prezzo di mercato inferiore rispetto al resto del Continente, modello Outlet Calabria.. Immaginiamo una linea ferroviaria dedicata espressamente al trasporto merci, inserita nei famosi Corridoi. Immaginiamo, infine, che la tradizionale contrapposizione tutta italiana tra Nord e Sud perda di significato di fronte alla crescita delle economie emergenti africane o asiatiche. E che un domani la Calabria si ritrovi a rappresentare il chiodo fisso di intere generazioni di lucidi sognatori con la pelle scura e le idee chiare. Questi «se» vi sembrano così scemi?

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