Non è il caso di ricordare, solo negli anniversari della sua morte, l’esempio che un giornalista come Giancarlo Siani rappresenta, non solo per chi aspira o ha già ha intrapreso una carriera giornalistica, ma anche per l’intera società civile. Un martire delle mafie, purtroppo come tanti altri e come tutti gli altri un esempio di lavoro e sacrificio. Il giornalismo della strada, sporco di polvere, lontano dal calore delle stufe e dal profumo di lavanda dei salotti della Napoli bene. Raccontava il disagio sociale, quello dimenticato, quello che, negli ambienti protetti della borghesia o nelle strade principali della città, nemmeno si conosce. Sono ambienti redditizi per la criminalità organizzata i piccoli vicoli dei quartieri popolari, un ufficio di reclutamento sempre affollato. Manovalanza a buon prezzo: basta poggiare sulle spalle dei ragazzini ali di carta che presto si strapperanno, nell’illusione di una vita migliore, con soldi facili in tasca, lontano dall’emarginazione e dalla povertà.
Giancarlo Siani nasce a Napoli nel 1959 nel quartiere del Vomero, iscrittosi all’università intraprende la sua carriera giornalistica. Iniziò a scrivere per il periodico Osservatorio sulla camorra diretto da Amato Lamberti. Poi lavorò come corrispondente da Torre Annunziata per il quotidiano Il Mattino. Le sue inchieste sui boss locali, lo avevano portato ad accusare il clan Nuvoletta (alleato dei Corleonesi di Totò Riina) e il clan Bardellino, di voler spodestare e vendere alla polizia il latitante Valentino Gionta, considerato dagli investigatori dell’epoca il boss di Torre Annunziata. Scrisse che i Nuvoletta, contravvenendo da “infami” al codice d’onore della criminalità organizzata, consegnarono Gionta alle forze dell’ordine, per liberare il campo ad Antonio Bardellino e così ottenere una futura non belligeranza tra le famiglie. Ma le rivelazioni indussero i Nuvoletta, disonorati di fronte alle altre famiglie mafiose partenopee, a sbarazzarsi del giornalista, che il 23 settembre venne ucciso proprio al Vomero, il quartiere che lo aveva visto nascere. Per chiarire i motivi che hanno determinato la morte e identificare mandanti ed esecutori materiali furono necessari 12 anni e 3 pentiti.
Ricordare Giancarlo, a 25 anni dalla sua morte, significa raccontare la sua storia, chi la conosce per la prima volta non può sottrarsi all’emozione che essa provoca. E’ quindi necessario ricordare, oggi e ogni giorno, un uomo che ci lascia un’eredità pesantissima: per non vanificare il suo sacrificio, ci insegna che il lavoro, qualsiasi esso sia, deve essere svolto fino in fondo, con coraggio e onestà. Sembrano parole frivole e già sentite, ma, per i tempi che corrono, è quanto mai necessario ripeterle. Dal panettiere al bancario, se tutti lavorassero affiancando alle ambizioni personali una finalità sociale, un impegno per il progresso dell’intera comunità, oggi ci troveremmo civilmente più evoluti, liberi, oltre che dai poteri occulti, dalla mediocrità e dall’egoismo che ci tengono ancora ancorati al terreno. Le ali così non saranno più di carta,ma di candide piume, anche per chi è nato nei vicoli dove l’occhio della società ha smesso di guardare.
Artemio Biagini