La Nembo in Aspromonte. I valorosi parà italiani commemorati sui piani dello Zillastro

di Cosimo Sframeli
Anche quest’anno, il 12 settembre 2010, I Parà delle Sezioni dell’A.N.P.d’I. (Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia) si sono ritrovati in Aspromonte per commemorare i caduti dell’ultima battaglia combattuta sui Piani dello Zillastro dai Paracadutisti della Nembo, l’8 settembre 1943. Il Comune di Oppido Mamertina è stato rappresentato dal vicesindaco Maria Grazia Zerbi. Presenti alla cerimonia il Presidente Nazionale Generale Giovanni Fantini, il Vicepresidente Nazionale Vittore Spampinato, il Consigliere Nazionale Tommaso Daidone, il Presidente Provinciale Francesco Giovinazzo. Sono stati deposti fasci di fiori innanzi alle “Croci ai caduti” ed una corona d’alloro innanzi al monumento.
La Santa Messa è stata celebrata nel “campo” dal Paracadutista Capitano Padre Alfio Spampinato, Cappellano del X Gruppo Regionale. Una funzione particolare perché officiata da un celebrante speciale che, come sempre, ha saputo amalgamare il sacro e il paracadutismo: uomini protagonisti della vita al limite con l’infinito ma mortali che attingono ed accarezzano l’Eterno. Toccante ed incisiva, quindi, la sua predica, di parabole e di metafore, che ha saputo trasmettere sensazioni profonde, intuizioni vivide ed intense. Infine, in un attento silenzio, accompagnato dall’alzata dei Labari, è stata declamata la Preghiera del Paracadutista. Toccante il racconto del Capitano Paolo Lucifora, “uno dei quattrocento” superstite della battaglia che, con lucida memoria storica, ha narrato i fatti ed indicato i luoghi. In particolare, ha ricordato di un Paracadutista che, ferito a morte, espresse l’ultimo desiderio: baciare il tricolore.
Nonostante l’inclemenza del tempo, a causa di una pioggia battente, si è riusciti a rivivere la poesia della nostra vita e del nostro paracadutismo che, comunque, è la poesia di chi non si è limitato a sognare un mondo migliore ma è andato a cercarlo e a sfidarlo, con le proprie debolezze e le proprie paure, col sentire nel proprio respiro e nel proprio sangue l’ansia e l’anelito di quell’infinito da cui veniamo ed a cui dobbiamo tornare.

LA NEMBO IN ASPROMONTE

Erano le 19.42 dell’8 settembre 1943 quando il Generale Pietro Badoglio annunciò l’armistizio.
A Cassabile, vicino Siracusa, alle 17.00 del 3 settembre 1943, il Generale Castellano, in doppio petto scuro, firmava in anticipo le tre copie dell’armistizio.
Alla stessa ora in cui Pietro Badoglio comunicava la fine delle ostilità, in Aspromonte, sui Piani dello Zillastro, per i crinali tra lo Jonio ed il Tirreno, si spegnevano gli ultimi echi di una epica battaglia tra 400 paracadutisti del 185° Battaglione della Nembo e 5.000 soldati canadesi di due Reggimenti, il Nuova Scozia e l’Edmonton.
La storia di questa battaglia, che in breve si trasformò in leggenda, prima che fosse oggetto di studio, venne fuori dalla memoria dei pastori che all’epoca insediavano quelle montagne.
Nel maggio 1942 nacque il 185° Reggimento Nembo. Erano destinati ad essere paracadutati su Malta ma, spediti in Sardegna, vennero sbarcati ed accampati a Castroreale, in provincia di Messina, nella speranza di contrastare lo sbarco anglo americano, proprio mentre tutti erano in fuga e cercavano alle popolazioni abiti civili per evitare di venire intruppati dai tedeschi in ritirata.
A ferragosto del 1943, la Nembo fu l’ultimo Reggimento a lasciare la Sicilia. Il Capitano Giorgio Ganzini annotava nel suo diario: ”Sbarchiamo a Scilla dove rimaniamo la notte ed il giorno appresso. Mentre sonnecchiavamo sdraiati sui binari della stazione vicinissima al mare c’è stato un bombardamento di notte con i lampioncini (bengala). Torno a Messina con un Plotone di uomini per recuperare materiali ed automezzi abbandonati. I tedeschi mettono a disposizione le loro zattere in cambio della restituzione di una ventina di automezzi che, per ordine del Colonnello Parodi, avevo… rapinato ad autisti tedeschi”.
Il Reggimento comandato dal Colonnello Giannetto Parodi era formato da tre Battaglioni al comando dei Capitani Edoardo Sala (III), Luciano Della Valle (XI) e Conati (VIII).
Intanto, a fine agosto, tra Melito Porto Salvo e Bagaladi venne inviato e lasciato solo l’XIII Battaglione del 185° Reggimento Paracadutisti Nembo, formato da reclute della classe 1923. Avevano in dotazione un mitra Mab, una pistola calibro 9, pugnale e bombe a mano. Il Battaglione, gravato da casi di paratifo, si mimetizzò opportunamente nell’abitato di San Lorenzo, dando la caccia ed accogliendo le avanguardie di commandos inglesi, sbarcati lungo la costa di Condofuri e di Bova Marina, con raffiche di mitragliatrici e tiro di mortai. Ritenendo inutile rimanere asserragliati nel paese, dato che tutte le strade più importanti erano state fatte saltare dai tedeschi, l’XIII cercò di raggiungere il proprio Reggimento, dislocato su Platì (nodo vitale per le comunicazioni tra i due versanti attraverso la Strada Statale 112), ripiegando per i sentieri dell’Aspromonte per giungere sui Piani dello Zillastro.
Frattanto, all’alba del 3 settembre 1943, tra Bagnara e Cannitello, sotto un fuoco micidiale di copertura aereo-navale, sbarcavano i primi soldati dell’Ottava Armata anglo-canadese. La difesa costiera italiana fu travolta in pochi minuti e le centinaia di postazioni vennero abbandonate. Restarono solo i ragazzi della Nembo (III e XI Battaglione) che presero la via dell’Aspromonte. Non avevano carte topografiche ed a fare da guida fu il Capitano Lodovico Picolli de Grandi. Le pattuglie di esploratori che precedevano il Reggimento canadese Nuova Scozia tentarono di localizzare i paracadutisti della Nembo che procedevano a gruppi tra i boschi per sfuggire agli aerei da ricognizione. Picolli, reduce d’Africa, aveva fatto un corso per piloti del deserto e riuscì a condurre i suoi soldati, dopo quattro giorni di marce estenuanti, sui Piani di Mastrogianni. Il III e l’XI Battaglione, quindi, furono dirottati su Serra San Bruno e Soveria Mannelli, nella Sila Piccola.
Infine, sull’Aspromonte, dalla Costa tirrenica, attraversando Oppido Mamerrtina, giungeva il Reggimento Nuova Scozia, al comando del Colonnello Bogart, che si fermò a poche centinaia di metri da dove erano già accampati i ragazzi della Nembo.
Sui Piani dello Zillastro erano le 23.00 del 7 settembre 1943 e la pace era stata già stabilita a Cassibile. I canadesi, attraverso i loro mezzi di radiocomunicazione, avevano notizia che l’armistizio era stato sottoscritto.
I parà italiani, esausti, riposavano sotto una faggeta, mentre i Capitani Picolli e Conati, in una perlustrazione notturna, vennero catturati dai canadesi. Picolli riuscì a scappare e a ricongiungersi ai suoi. Breve consiglio di guerra tra i comandanti. Si decise di liberare il Capitano Conati.
Belisario Mardilli, nel libro Morire per qualcosa, così descriveva l’inizio ed alcune fasi della battaglia tra 400 paracadutisti della Nembo e 5.000 canadesi. Un rapporto di 1 a 12. “Si mosse il Capitano Picolli alla testa dei suoi ragazzi, affrontò le mitragliatrici avversarie, penetrò fra le postazioni con mirabile quanto disperato coraggio. I suoi ragazzi erano continuamente bersagliati dai colpi micidiali delle armi automatiche, ma andavano avanti. Era una marcia allucinante nel folto degli alberi, fra i bagliori delle raffiche ed i lampi delle bombe a mano che dall’una e dell’altra parte compivano parabole mortali per abbattersi sugli uomini. Andavano avanti quei giovani soldati, fin quando una raffica non raggiunse in pieno petto lo stesso comandante Picolli. Era la fine. Circondati da forze preponderanti ed ormai privi di munizioni, i superstiti molti dei quali feriti, vennero fatti prigionieri.”
Il Capitano Picolli fu colpito a morte a fianco del Caporale Matteucci e di diversi altri paracadutisti che l’avevano seguito nel suo generoso tentativo. La lotta fu impari, giacché stava di fronte un intero Reggimento nemico, armato di tutto punto, con truppa “freschissima”, appostata in posizioni predominanti, che rabbiosamente sparava contro. I paracadutisti della Nembo erano provati da lunghe astinenze e da lunghe marce, con le sole armi individuali e con limitatissima dotazione di munizioni che esaurirono in poche ore. Mentre le pallottole delle mitragliatrici nemiche sferzavano l’aria da ogni parte lacerando le tenebre, i parà brandirono come clave il calcio del moschetti, oramai inservibili, utilizzando soltanto pugnale e bombe a mano. I canadesi, sbigottiti, arretrarono.
Il Tenente Lino Romanato, comandante della XXIII Compagnia dell’XIII Battaglione, così annotava: “Un Caporal Maggiore, pur essendo ferito ad una mano ed avendo due dita stroncate, continuava a darmi aiuto; un altro, ferito grave, buttava fiotti di sangue dalla bocca e dalla nuca (un proiettile entratogli dalla bocca era uscito dall’occipite). Continuando a reggersi in piedi mi gettò le braccia al collo e mi appoggiò la testa sulle spalle. Cercava sostegno, oppure pretendeva farmi ancora da scudo col suo corpo? Ancora un altro lancio di bombe a mano, sia da parte nostra che da parte del nemico, e un nostro ulteriore balzo in avanti. Vengo nuovamente ferito al dorso di una mano da una scheggia. Ora la mischia si fa più furibonda con terribili corpo a corpo finché soverchiati dal nemico, siamo ridotti all’impotenza.”
Ancora un gruppo tattico di paracadutisti, con colpi d’ariete, cercava di sfuggire al nemico e prendere la via della salvezza. E proprio quando furono ridotti all’impotenza, il Colonnello Bogart, che morirà a Potenza combattendo, andò incontro ai ragazzi della Nembo. Era mortificato. Aveva appreso che gli italiani erano alleati.
Una storia incredibile.
I paracadutisti feriti furono raccolti nel bosco e curati. In un mare di sangue, il Tenente medico Pavetto, preso dallo sconforto, si strappò le decorazioni che il Colonnello Bogart gli riappuntò sul petto.
All’imbrunire dell’otto settembre la salma del comandante Lodovico Picolli de Grande scese verso Platì, portata a spalla, su quattro legni.
Dopo più di mezzo secolo, sulla battaglia dello Zillastro resta il mistero. Allo Stato Maggiore dell’Esercito dicono che sia ancora “oggetto di studio”. Il numero dei morti non si conoscerà mai. Neanche tra i canadesi.
Non fu una guerra vinta o persa. Fu il modo in cui, in quegli avvenimenti cruciali e sanguinosi, i contendenti si giocarono la vita che non cercarono e né difesero. La vissero e basta. Furono un tutt’uno sui Piani dello Zillastro dove lo scontro fu duro, generoso, intenso per violenza, e breve. Erano soldati che avevano accettato come dono ciò che di affetti e valori avevano ricevuto. Era la Madrepatria che i paracadutisti della Nembo difendevano dall’invasione nemica.
Con generosità, diedero la vita e lo fecero per qualcosa di più grande che fece spazioso il loro cuore. Senza questo, espressione massima dell’esistere stesso, ci sarebbe stato un accumulo di disperazione e di morte. Si donarono per tutti onorando quelli che li avevano preceduto. Così che in quell’azione del servire ci fu il privilegio di morire.
E’ in questa prospettiva che la battaglia dello Zillastro ci invita ad una profonda riflessione. Una riflessione che non può né deve ristagnare nelle acque morte e paludose dell’oblìo codardo e filisteo.
Il dono, come il donarsi di quei giovani, non è un circolo ma una retta. Infatti, il circolo è immagine dell’utile, il donarsi, di contro, è il non ritorno, è l’impossibile dei generosi che annichila la coscienza dei vili.
Fu inattingibile, segreta e illimitata, la libertà dei giovanissimi ragazzi della Nembo!

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