La ‘ndrangheta “lancia” il guanto di sfida allo Stato

Reggio Calabria. E adesso che si fa? Contro un razzo lanciato da un RBR M80 non bastano i giubbotti antiproiettili, e nemmeno le auto blindate. La ‘ndrangheta alza il tiro e tenta di ridicolizzare le forze dell’ordine, replicando punto su punto alle ultime ondate di arresti. Ed è un gioco al rialzo. È lunga e sempre in crescendo la sequela di intimidazioni ai danni della magistratura reggina. La bomba alla Procura Generale nel gennaio di quest’anno, poi il bullone svitato all’auto di servizio del procuratore generale Salvatore Di Landro, ancora i proiettili inviati con una lettera anonima al Procuratore Giuseppe Pignatone, il tritolo con cui è stato fatto esplodere il portone di casa dello stesso procuratore generale Di Landro. Infine, questa notte, un lanciarazzi fatto trovare davanti al Cedir.
Solo pochi giorni fa la Polizia aveva celebrato a Polsi, nel Santuario della Madonna della Montagna, tradizionale luogo per i summit di ‘ndrangheta, il proprio Patrono, San Michele Arcangelo. Oggi è la ‘ndrangheta che va in “pellegrinaggio” in uno dei luoghi simbolici di uno dei tre poteri dello Stato: la sede della Procura, che in teoria dovrebbe essere il posto più sicuro della città.
Tanto sicuro, però, non è più nemmeno il Cedir, se un cecchino armato di lanciarazzi e dotato di buona mira avesse voluto sparare davvero, di giorno e non di notte, con un M80 nuovo e non con quello ritrovato, indirizzando il razzo a una delle finestre della struttura che ospita la Procura.
Il raggio di gittata è di 250 metri, molti di più di quelli che separano in linea d’aria il Cedir dal luogo dove è stato rinvenuto il lanciarazzi, poggiato per terra accanto a un vecchio materasso ai bordi dello svincolo per Reggio-Modena, sulla bretella del Calopinace, proprio di fronte al Cedir.
E adesso che si fa? Il Questore Carmelo Casabona non ha voluto rilasciare dichiarazioni, così come non ha commentato Renato Cortese, il capo della Squadra Mobile reggina. Di certo il segnale lanciato dalla ‘ndrangheta, il guanto di sfida, è più che inquietante. La potenza devastante di un’arma da guerra come quella rinvenuta è fuori di dubbio: un’arma anticarro.
Se Pignatone ha importato a Reggio il metodo d’indagine palermitano, la ‘ndrangheta gli manda a dire che il “modello Palermo” da ora in poi va preso ad esempio, in tutto e per tutto. Con una vita blindata anche per i magistrati in prima linea. Difficile ipotizzare, infatti, che non saranno prese a breve iniziative di tutela strettissima, dopo quest’ulteriore intimidazione.
Di più, vista la facilità con cui qualcuno gira di notte (la telefonata che ha avvertito la sala operativa della Questura è giunta sul 113 intorno all’una di stanotte) portandosi dietro un lanciarazzi, qualcuno invoca di nuovo la presenza dell’esercito in città. È il caso di Azione Giovani-Giovane Italia, che ricordando la disponibilità già espressa dal ministro della difesa Ignazio La Russa annuncia a giorni una petizione per l’arrivo dei soldati.
Ma che Stato è quello che ha bisogno delle Forze Armate, per ristabilire il controllo del territorio? E che senso ha combattere la ‘ndrangheta in tuta mimetica, quando poi le leggi sono iper-garantiste? Sarebbe solo una vuota operazione d’immagine. L’immagine di chi, poi, visto che il volto della città ne uscirebbe ancora più a pezzi. Di certo, però, qualcosa va fatto. Non inviare i carri armati non significa necessariamente aspettare che sia la ‘ndrangheta ad alzare le barricate. Forse sarebbe il caso di riequilibrare i piatti della bilancia della Giustizia con interventi normativi severi ma adeguati ed efficaci allo scopo.

Fabio Papalia
(photo ASA)

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