di Fabio Papalia
Reggio Calabria. Ha assistito all’udienza quasi tutto il tempo in piedi, col volto attaccato alle sbarre della gabbia degli imputati. Gioacchino Campolo, l’ultrasettantenne “re dei videopoker”, non ha battuto ciglio durante tutte le fasi dell’udienza, anche quando a testimoniare è stato un suo ex dipendente, Fortunato Pitarelli, il quale ha parlato del suo “ex principale” con toni appassionati: «Con lui mi sono sempre trovato bene». Dal racconto di Pitarelli emerge un datore di lavoro “paterno”, che ha prestato duemila euro al dipendente che voleva portare le bambine a Disneyland. «Ho chiesto il favore a lui – ha spiegato Pitarelli – anziché fare un prestito con la finanziaria». Glieli ha prestati, e poi quando il dipendente gli ricordava di doverglieli restituire lo rassicurava, “poi se ne parla”, sempre secondo il racconto di Pitarelli. Quando avvenne il licenziamento, a causa del sequestro dell’impresa di videogiochi, Campolo versò la buonuscita al dipendente, parte con un assegno e parte in contanti, detraendo la somma che gli aveva prestato. Una ricostruzione che non convince però il pm Beatrice Ronchi, che più volte ha incalzato il testimone, chiedendo conto del perché si fosse fatto pagare con assegno e contanti, anziché con un assegno in unica soluzione. «Tanto mi servivano i soldi, li avrei dovuti cambiare in banca, se me ne dava una parte in contanti tanto meglio», questa la spiegazione fornita dal diretto interessato. «Del resto – ha aggiunto – sono sempre stato pagato in contanti, ma – ha ribadito – con il signor Campolo non ho mai avuto alcun problema».
Diversamente da altri suoi colleghi, che hanno denunciato di percepire effettivamente meno di quanto veniva dichiarato nella busta paga, ragione per cui oggi Campolo, difeso dall’avv. Francesco Calabrese, è accusato di estorsione davanti al Tribunale penale, Olga Tarsia presidente, Barbara Bennato e Maria Ferraro giudici a latere.
L’udienza è iniziata col clima delle grandi attese, per la deposizione del pentito Antonino Lo Giudice. Prima di lui, in due distinti collegamenti in videoconferenza, hanno deposto Orazio De Stefano, assistito dagli avvocati Fortunato Renato Russo e Paolo Tommasini, e suo nipote Paolo Rosario, assistito dall’avv. Michele Albanese. Zio e nipote sono stati entrambi citati quali imputati in procedimento connesso, ex art. 210 c.p.p..
La testimonianza di Orazio De Stefano: «Non conosco Gioacchino Campolo», il nipote Paolo Rosario non parla
La prima domanda del pm per Orazio De Stefano si è appuntata sulla sua frequentazione o conoscenza del collaboratore di giustizia Giovanbattista Fracapane. «Negli anni della mia carcerazione a Reggio, dall’86 all’88 – ha risposto De Stefano – lo tenevo a distanza perché mi era stato indicato come ladro e scippatore. Non sono mai andato a passeggio con lui nel cortile del carcere, né ho mai condiviso con lui durante la mia detenzione le ore di socialità». Orazio De Stefano, quindi, ha negato di conoscere Campolo: «Assolutamente non lo conosco… Non conosco Gioacchino Campolo e mai ho chiesto denaro tramite mio nipote…». Alla domanda se la sua famiglia avesse mai avuto interessi nei videogiochi ha risposto ancora perentoriamente: «Lo escluso nella maniera più assoluta». Dopo aver risposto ad altre domande del pm e del presidente, sui processi che lo vedono coinvolto «ho due processi pendenti dovuti alle dichiarazioni di Fracapane, uno è il Number One, in cui sono stato assolto in appello, e un altro è il processo Arca, in cui sono stato assolto in primo grado… sono detenuto per sentenza di condanna definitiva nel processo Albanese e Olimpia 1» Orazio De Stefano ha spiegato anche le sue ragioni, sull’impossibilità di conoscere di persona Campolo: «Le mie frequentazioni fino al 1982 erano con i miei compagni del Liceo Classico e dell’Università, frequentavo piazza San Giorgio. Nell’82 fui raggiunto da ordinanza di custodia cautelare in carcere su richiesta della Procura di Roma, e fui latitante per 3 anni, poi assolto. Nel gennaio del 1986 fui riarrestato, quindi non ho avuto la possibilità di conoscere il sig. Campolo. Sapevo che esisteva e che aveva un’attività di macchinette “mangiasoldi”, ma non l’ho mai conosciuto personalmente».
Suo nipote Paolo Rosario De Stefano, invece, si è avvalso della facoltà di non rispondere.
La testimonianza di Antonino Lo Giudice: «Quando passavamo da lui ci riempiva la macchina di dolci»
Inquadrato di spalle, dall’alto, collegato in videoconferenza, è giunto così il turno della testimonianza di Antonino Lo Giudice, boss dell’omonima cosca che ha deciso di collaborare con la giustizia. Lo Giudice ha datato la sua prima conoscenza con Campolo a cavallo tra gli anni 70 e 80, quando iniziò a muovere i primi passi nella ‘ndrangheta col grado di camorrista. «Ho conosciuto Campolo durante la mia frequentazione a casa di Francesco Canale, l’ho incontrato parecchie volte. Ogni volta che partivamo con Canale, io guidavo la macchina, passavamo dal suo ufficio. Campolo ci riempiva la macchina di dolci». Sui rapporti tra Campolo e Canale, a domanda dell’avv. Calabrese, Lo Giudice ha risposto così: «Canale andava da Campolo molto spesso, e lui personalmente caricava la macchina. Siccome conoscevo molto bene Canale, che sfruttava le persone, la mia supposizione è che Canale sfruttava anche lui».
Lo Giudice sparò a due ragazzi che disturbavano in una sala giochi di Campolo
È stato lo stesso Lo Giudice a raccontare l’episodio. «Un giorno Canale mi mandò a chiamare e mi disse se era possibile dare una lezione a due ragazzi che in una sala giochi di proprietà di Campolo davano fastidio ad altri avventori. Non potevo dirgli di no. Mi disse che mi avrebbe fatto chiamare da un tale, lo chiamava l’uomo X, mi disse “ti verrà a trovare, vedi di fare come dice lui”. Era Luigi Rosace, di Vito Inferiore, un uomo più grande di me. Dopo un paio di giorni il Canale mi mandò una Vespa con due pistole e il giorno dopo Rosace si presentò da me, “ora vedo chi sono questi ragazzi e poi vediamo per dare una lezione”. Dopo 4 o 5 giorni mi disse domani sera andiamo. Presi la Vespa, e siamo arrivati vicino al Comunale, all’angolo della farmacia, quando sono usciti li abbiamo seguiti, loro ci portarono in via Paolo Pellicano, vicino all’ufficio di Campolo. Quando ci è sembrato il momento più opportuno, a pochi metri gli ho sparato per terra, non volevo ucciderli, la Vespa la guidava Rosace. E’ stata un’azione fulminea, siamo ritornati da dove eravamo partiti, sistemai la Vespa e rimandai tutto a Canale. Lui ha avuto dubbi su di me, mi mandò a chiamare e mi ringraziò, mi disse “per un po’ di giorni non venire”. Seppi dai giornali che i due forse erano rimasti feriti, non ricordo bene, ma credo di striscio, perché ho sparato per terra per non ucciderli, non su di loro». «Uno o due giorni prima – prosegue – avevo visto Campolo che scendeva da casa di Canale, dopo lui mi spiegò che questa cosa interessava a Campolo perché questi due gli davano fastidio. Una mia intuizione è che Campolo e Canale erano molto amici, e credo che Canale sfruttasse il sig. Campolo».
L’interessamento di Antonio Zindato a difesa di Campolo
Anni dopo, le strade di Lo Giudice e Campolo si sarebbero nuovamente incrociate. «Durante la mia detenzione, intorno all’86-87, mi mandò a dire Antonio Zindato (fratello di Francesco Zindato) di non cambiare più assegni da Campolo, perché interessava a lui, e poi non è stato più disturbato». «Mi disse – precisa- di mandare a dire a mio padre di non disturbare Campolo che era persona sua e che interessava a lui». In quegli anni, ha spiegato il collaboratore di giustizia, con il figlio detenuto e gli affari che non andavano a gonfie vele, il padre si era trovato male in arnese, e talvolta chiedeva la “cortesia” a Campolo di cambiargli un assegno post-datato da 2 milioni di lire. «Sicuramente qualche volta l’avrà disturbato anche senza assegni. Ma se faceva questo mio padre saldava, era una persona seria». I due, il padre di Lo Giudice e Campolo, si erano conosciuti quando Lo Giudice senior aveva fatto installare dei videogiochi in un circolo ricreativo di via Benassai che aveva rilevato negli anni 70, ed è rimasto attivo fino al 1982.
Quando Gioacchino Campolo disse “no” a Lo Giudice
Dopo di allora, negli anni 2000, l’ultimo incontro tra Campolo e Nino Lo Giudice. «Verso il 2004-2005 non so di preciso, mi recai al suo ufficio insieme a Consolato Villani in quanto nelle vicinanza dell’abitazione di mia madre, in via XXV Luglio, c’era un suo locale dove si poteva aprire un negozio. Abbiamo chiesto se era possibile avere in affitto il negozio, ci ha risposto che non era possibile perché aveva già preso impegni. Abbiamo salutato con educazione, e ce ne siamo andati». La testimonianza di Lo Giudice è terminata, dopo aver risposto alle domande del difensore di Campolo: «Il mio pensiero è che Campolo era amico sicuramente del Canale, poi dopo la richiesta di Zindato ho capito che era amico anche di Zindato. Non ho mai avuto altre notizie in ambiente criminale su Campolo».
La testimonianza di un “conoscente” di Fracapane
Meno illuminante, invece, la testimonianza di Leo Cuzzilla, di 31 anni. Il giovane, che oggi vive e lavora a Milano in una pizzeria, ha confermato che molti anni fa conosceva Giovanbattista Fracapane, frequentato nella rivendita di gommista di quest’ultimo. Quanto alle altre domande del pm e del presidente, il giovane ha dichiarato di non conoscere Campolo, di non avere frequentato Fracapane durante la latitanza di quest’ultimo, e di non ricordare se sia mai stato celebrato un processo sulla morte del proprio padre, Pietro Cuzzilla ex gestore del bar Stadio ucciso a colpi di pistola nel 1987.
L’udienza è stata rinviata al prossimo 16 novembre.