Reggio Calabria. I fatti emersi dalla inchiesta della DDA di Reggio Calabria su “presunte” connivenze tra mondo mafioso e mondo accademico finalizzate a rendere più agevole il percorso accademico di “studenti” appartenenti e/o “protetti” dalla criminalità organizzata, stanno avendo il merito di innescare una sana (e speriamo approfondita) riflessione sulla Università di Reggio Calabria. Una riflessione vera, autentica, a più voci. Questa inchiesta è riuscita anche (si spera definitivamente) a dare agli studenti maggiore consapevolezza del proprio ruolo e della propria missione. Ci chiediamo se è soltanto un caso che questi fatti stiano accadendo proprio adesso ossia nel periodo più buio di vita del (giovane) Ateneo reggino. Tra scheletri di edifici abbandonati, biblioteche che funzionano a singhiozzo, carenza assoluta di servizi per gli studenti (sportivi, sociali, culturali), giovani ricercatori in fuga verso lidi migliori, professori strutturati che rientrano nelle loro “sedi di origine”, infrastrutture concepite e gestite male, assenza di turnover e di una seria politica di ricambio generazionale, ormai vi è un andazzo negativo (che forse dura da troppi anni) che sta svilendo l’eccellenza scientifica che pervade il nostro mondo accademico reggino. Diciamolo subito: sembrerebbe che nel nostro Ateneo si sia perso (speriamo non irrimediabilmente) il senso della Istituzione Università. Probabilmente anche il senso e il significato dell’appartenenza ad una comunità scientifica. Tutti i professori Ordinari e Associati, i Direttori di Dipartimento, i Presidi, le decine di Prorettori e/o Delegati del Rettore freschi di nomina, che in questi lunghi giorni sono rimasti nel silenzio assoluto, dovrebbero ringraziare la Magistratura e le Forze dell’Ordine per la ghiotta occasione che è stata loro offerta di guardarsi interiormente e riflettere se stanno facendo davvero un buon lavoro rispetto al ruolo di educatori (e non solo) che ricoprono. Rispetto agli studenti e alle loro famiglie e rispetto ai dottorandi, assegnisti, collaboratori vari che compiono mille sacrifici per coltivare la passione della ricerca e della didattica. Dentro una Facoltà universitaria dovrebbe essere ovvio essere contro tutte le forme di “mafia” che affliggono la società e che ormai tentano anche di infiltrarsi nei Templi della Cultura. Non servono Senati Straordinari, inutili Piani strategici o “grandi iniziative” per gridare al mondo che dentro le nostre aule regnano “l’onestà e la rettitudine”. Sarebbe molto più utile se ciascuno svolgesse il proprio ruolo sapientemente e onestamente, vivendo la propria Università intensamente contro il quotidiano logorio che le inefficienze e la scarsa meritocrazia alimentano. I Dipartimenti, i Dottorati, le Facoltà dovrebbero essere frequentati (quasi) esclusivamente da uomini e donne dotati di enorme passione per la legalità, la ricerca scientifica, lo studio, che dovrebbero rifiutare a priori la cultura mafiosa, la cultura dell’omertà, la cultura della connivenza, la cultura dell’indifferenza, la cultura della prevaricazione. È impossibile accettare l’idea che dentro una Università – luogo di eccellenza in cui si forma (o si dovrebbe formare) la classe dirigente di una Nazione, di una Regione, di una Provincia, di una comunità locale – si facciano affari con la mafia. Quanto accaduto certamente ha macchiato l’immagine del nostro Ateneo e dell’intera comunità accademica di Reggio Calabria che si deve considerare offesa e oltraggiata dai comportamenti di una minuscola minoranza di individui che (per debolezza? per profitto?) allegramente hanno intrecciato relazioni di varia natura con persone che nulla hanno a che fare con il mondo universitario. Noi tutti dobbiamo continuare ad andare a testa alta ai convegni nazionali ed internazionali, dobbiamo continuare a scrivere con orgoglio nei nostri curriculum l’appartenenza alla “Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria”, dobbiamo continuare a suggerire ad amici e parenti l’iscrizione alle facoltà reggine, dobbiamo continuare ad essere fieri di avere studiato e di esserci formati (o aver lavorato) a Reggio Calabria. Sebbene la primavera sia lontana, probabilmente è arrivato per davvero il momento di pianificare una poderosa stagione di “pulizia” e di “cambiamenti”. Bisogna ricostruire e ripensare il senso e il significato dell’appartenenza ad una comunità scientifica. Urge un gesto esemplare che serva a ridare dignità alla comunità del personale tecnico-amministrativo, degli studenti e delle loro famiglie, dei professori, dei ricercatori. E forse è necessaria anche una approfondita riflessione sui modelli comportamentali che questo Ateneo intende offrire agli studenti e all’esterno. Chi ha la responsabilità istituzionale di gestire un Ateneo, un Settore, una Facoltà, un Corso di Laurea un Dipartimento, un Dottorato, oggi più che mai, è chiamato a dare risposte chiare all’intera comunità accademica ed alla città e al suo territorio. È necessario un gesto concreto di rifiuto della cultura mafiosa e della cultura dell’indifferenza che non può assolutamente trovare spazio tra le aule dei Dipartimenti universitari e delle Facoltà. Ci auguriamo che la nostra Facoltà di Architettura e tutta la “Mediterranea” ritorni presto ad essere la meravigliosa “palestra di vita” che ha formato decine di migliaia di giovani che negli anni sono riusciti ad affermarsi come professionisti, professori o ricercatori in molti posti del mondo, e che ha dato lustro alla città di Reggio Calabria e alla Calabria intera. Soltanto con lo sforzo congiunto di tutti e con l’onestà, la lealtà, la creatività e l’intelligenza si potrà tenere lontana la cultura mafiosa e la cultura del “non fare”. Una non auspicabile indifferenza a tutto ciò, farà soccombere il nostro Ateneo e con esso l’intera comunità accademica di Reggio Calabria.
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