Reggio Calabria. Diciotto anni di reclusione: questo è quanto ha deciso la seconda sezione del Tribunale di Reggio Calabria, Olga Tarzia presidente e Barbara Bennato e Maria Ferraro giudici a latere, al termine della camera di consiglio durata più di quattro ore. Inflitti, quindi, tre anni in meno rispetto alla richiesta del pubblico ministero, Beatrice Ronchi, che durante la requisitoria di lunedì scorso, aveva formulato un’istanza di condanna a ventuno anni di carcere. Gioacchino Campolo, detenuto dal gennaio 2009, è stato, pertanto, ritenuto, responsabile dei reati di concorrenza illecita, estorsione ai danni dei dipendenti della ditta di cui era titolare, la “A.R.E.” e che sarebbero stati costretti a dichiarare, pena il licenziamento, di percepire uno stipendio dall’importo di gran lunga superiore a quello ricevuto realmente, nonché a lavorare in condizioni precarie. Ma i reati più gravi di cui il re dei videopoker è stato ritenuto colpevole sono le due estorsioni aggravate dalle modalità mafiose perpetrate nei confronti di Vincenzo Morabito, titolare della sala giochi “Edonè” ubicata accanto al “Ritrovo Morabito”, anche questo esercizio commerciale di sua proprietà, e di Domenico Putortì, uno dei soci della ditta “T.&.T”. Gioacchino Campolo quindi secondo il Tribunale ha imposto con metodi mafiosi i propri apparecchi da giochi a Vincenzo Morabito, penalizzando l’attività lavorativa di Domenico Putortì che deteneva l’appalto di fornitura della macchinette alla sala giochi “Edonè”. I fatti di cui è stato ritenuto autore Campolo risalgono al 1998 e si sono protratti fino al 2008. Dieci anni in cui l’imprenditore reggino ha ottenuto il monopolio in città anche grazie alle sue amicizie negli ambienti criminali. Secondo l’accusa, Putortì dovette ritirare i propri videopoker in quanto Campolo era appoggiato dal boss di San Giovannello Mario Audino, poi assassinato. A pesare fortemente sulla sorte giudiziaria del “re dei videopoker” anche le dichiarazioni di quattro pentiti: Antonino Fiume, Giovan Battista Fracapane, Nino Logiudice e Paolo Iannò, i quali hanno affermato, in linea generale, che Campolo era amico di tutte le famiglie mafiose di Reggio Calabria, dai De Stefano agli Zindato, passando per i Logiudice, i Libri ed i Canale. Un’amicizia tradotta in favori, regali e denaro per le cosche. Campolo nei giorni scorsi, oltre aver dichiarato di non aver perpetrato alcuna estorsione, aveva sottolineato di non aver mai avuto rapporti con le cosche reggine e di non essersene servito per la sua attività imprenditoriale. I guai giudiziari per Gioacchino Campolo, peraltro, non finiscono con la sentenza di primo grado odierna. Potrebbe essere accusato a breve anche del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, come già preannunciato dal pm Ronchi giorni fa. Oggi, a quasi due anni dall’arresto, per Gioacchino Campolo si chiude, quindi, soltanto la prima tappa di una serie di vicende giudiziarie. Il “re dei videopoker”, dovrà, infatti, difendere anche le proprie tasche, in conseguenza della circostanza che nel 2008 la Guardia di Finanza, con l’operazione “Geremia” sequestrò gran parte del patrimonio, non solo a lui riconducibile, ma anche quello collegabile alla moglie, al figlio e alle altre 2 figlie. Una famiglia finita nel ciclone giudiziario anche nel luglio del 2010, con l’operazione, condotta sempre delle “Fiamme gialle, “Les Diables”, in seguito alla quale sono stati apposti i sigilli ad un patrimonio il cui valore ammonta a più di 300 milioni di euro. Un maxi sequestro che ha interessato dverse società e centinaia di unità immobiliari e di beni mobili, fra cui opere artistiche di alto valore economico e sociale, come i quadri di Guttuso,Dalì, Ligabue e De Chirico.
Angela Panzera