di Fabiano Polimeni
Sono trascorsi sette lunghi anni, da quel 14 febbraio 2004 in cui, in circostanze tutt’altro che chiare, è stato ucciso il Pirata, il romagnolo che entusiasmò e avvicinò al ciclismo le masse italiche come forse nessuno prima d’allora era riuscito a fare. Marco Pantani è morto quel 14 febbraio, ma forse ancor più grave è che sia stato abbandonato, bistrattato, additato a capro espiatorio di un intero sistema, nel quale ha pagato per tutti. Quale può essere il modo migliore per ricordare un campione che ha emozionato e folgorato gli appassionati (e non solo) a ogni scatto? Tralasciando i dettagli, tutt’altro che secondari, su quel controllo che a Madonna di Campiglio (giugno 1999) lo estromise da un Giro d’Italia dominato, dopo anni di incidenti che avevano spezzettato la carriera, è attraverso le imprese più belle che si può rendere onore al Pirata. Come il primo grande volo nel 1994 sul Mortirolo, dove mise in crisi e staccò Miguel Indurain e Evgeni Berzin, oppure, ricordando l’impresa in terra di Francia, al Tour del 1997 quando, tornato in gruppo dopo il grave infortunio che rischiò di comprometterne la carriera (Milano-Torino 1995), vinse in solitaria sull’Alpe d’Huez marcando quello che è ancora il record di scalata. Poi arrivò il 1998, l’annata magina per l’Italia che pedala. Il Giro d’Italia partito malissimo, con la cronometro di Trieste nella quale Pantani accumulò quasi 5′ di distacco da Alex Zuelle, e la necessità di attaccare a ogni cavalcavia, per recuperare il terreno perso. Quel Giro che lo vide infiammare le folle sulla Marmolada, quando insieme a Beppe “turbo” Guerini scalzò la maglia rosa dalle spalle dello svizzero, indossandola per la prima volta in carriera. Oppure, quando nel duello finale con Pavel Tonkov, in una lotta tra le più belle mai andate in onda sugli schermi del ciclismo moderno, riuscì ad avere la meglio a Plan di Montecampione, dove volò negli ultimi due chilometri, per consolidare il primato in classifica e “proteggersi” dalla temibile crono finale di Lugano. Quel Giro segnò la Pantamania, ma il bello doveva ancora arrivare. E giunse in luglio, quando si presentò al via della Grande Boucle senza i favori del pronostico, tutti per il tedesco Ullrich. Prime cronometro e primi minuti accumulati, certo non il modo migliore per contendere la maglia gialla. Poi, arrivarono i Pirenei, e mattone dopo mattone costruì la rimonta. Il pezzo d’antologia arrivò sulle Alpi, in una giornata da tregenda, con i 2700 metri del Col du Galibier che si ergevano a giudice del Tour de France, quei venti e passa chilometri d’ascesa che rappresentavano l’ultima chance per far saltare il banco. E il Pirata quel banco lo ribaltò in maniera straordinaria, riuscendo a calamitare il tifo dei francesi e salvare letteralmente una corsa macchiata dalle vicende di doping dell’affaire Festina. Quel giorno Pantani mise le ali, un’impresa biblica culminata all’arrivo di Les Deux Alpes con oltre 9′ di vantaggio su Jan Ullrich, un numero che lo portò a vestire la prima maglia gialla in carriera, che non levò più fino agli Champs Elisee, dove riportò un italiano sul gradino più alto del podio a distanza di 33 anni da Felice Gimondi. Con questi presupposti, il 1999 sarebbe stato scintillante, senza gli infortuni a disturbare la preparazione, il grande favorito era lui, il Pirata. Di quel “tragico” Giro d’Italia la miglior istantanea che tutti gli amanti conservano nella loro memoria è l’arrivo in salita al Santuario di Oropa. Pantani è già maglia rosa, Gotti e Savoldelli i più immediati inseguitori, comunque distaccati in classifica. All’inizio dell’ascesa finale, Pantani è vittima di un guasto meccanico. Si ferma, perde 40″ e le ruote del gruppo. Riparte con l’intera squadra all’inseguimento ma davanti attaccano la salita a tutta. Inesorabilmente, non appena le pendenze si impennano, Pantani riprende uno a uno tutti i corridori di testa: uno scatto, rientra, li guarda, un altro scatto per riportarsi ancora avanti. C’è chi viene scavalcato a doppia velocità, un capolavoro che resterà negli annali del ciclismo. L’ultimo a essere ripreso è il francese Laurent Jalabert: prova a resistere, stare a ruota del Pirata, niente da fare. Sul traguardo Pantani è primo, non esulta e spiegherà che non era sicuro di aver ripreso tutti i corridori che stavano davanti. Quella, quell’immagine di Oropa, è l’ultima dimostrazione di forza assoluta, prima di Madonna di Campiglio. Quel giugno, dopo esser stato osannato da tutti, il Pirata venne affossato e accusato come il peggiore dei criminali, quella stampa che ne aveva tracciato i contori mitologici, con altrettanta rapidità lo gettò in pasto ai Tg generalisti. Salvo poi sorvolare sul fatto che i controlli usati per verificare la possibile assunzione di sostanze dopanti siano stati aboliti e sostituiti a fine 1999, perché se ne appurò l’insufficienza a determinare l’assunzione di doping. Infatti, quel che la stampa dei sensazionalismi non disse allora è che il controllo che escluse Pantani dal Giro rientrava nel piano “Io non rischio la salute”, che si proponeva la sospensione cautelativa dell’atleta per accertare con ulteriori indagini l’assunzione di sostanze dopanti. In teoria, senza la campagna mediatica distruttiva verso Pantani, il Pirata sarebbe potuto andare al Tour de France e correre senza alcun problema. Invece, si volle a tutti i costi sacrificare l’agnello di un sistema che evidentemente aveva subito dei cortocircuiti. Da quel giugno 1999, si rividerò solo sprazzi dell’immensa classe di Pantani. In Francia, con le due vittorie del 2000, sul Mont Ventoux (dove un presuntuoso Armstrong sbandierò di aver lasciato vincere Pantani, con una superbia che – con il senno di poi e le indagini portate avanti in Francia su alcuni esami antidoping del texano nei 7 Tour vinti – appare davvero eccessiva) e a Courchevel, dove il texano dovette alzare bandiera bianca: per la prima volta nel suo regno di dominatore del Tour, qualcuno era riuscito a staccarlo senza ammettere repliche. Sette anni. E’ il tempo che ci separa dalla perdita di un uomo, ancora prima che di un campione. Di un romagnolo arrivato dal mare per dominare le cime più alte e volare nel mito del ciclismo.
Foto: CC – Author Hein Ciere (Alpe d’Huez 1997)