Reggio Calabria. Omicidio di Francesco Fortungno, botta e risposta tra accusa e difesa nell’ultima udienza del processo che si sta celebrando presso la Corte d’Assise d’Appello reggina, Bruno Finocchiaro presidente, Lilia Gaeta a latere, relativo all’assassinio del vice presidente del consiglio regionale, ucciso a Locri il 26 ottobre 2005 dinnanzi a Palazzo Nieddu del Riu mentre erano in corso le primarie del centrosinistra del partito allora denominato “Ulivo”.
Alla sbarra per il delitto del politico calabrese, ci sono Alessandro e Giuseppe Marcianò, Salvatore Ritorto e Domenico Audino, condannati dalla Corte d’Assise di Locri, il 2 febbraio del 2009, alla pena dell’ergastolo; imputati anche Vincenzo Cordì e Carmelo Dessì, condannati in primo grado rispettivamente a 12 e 4 anni, Antonio Dessì ad 8 anni mentre, per l’altro imputato Alessio Scali, la Corte d’Assise di Locri decise di non procedere perché egli, pur essendo accusato del reato associativo, per questo capo d’imputazione era stato già condannato a 5 anni e 4 mesi nell’ambito del processo “Lampo”. Alla sbarra vi erano anche Bruno Piccolo e Domenico Novella che venne processato con il rito abbreviato e condannato a 13 anni e mezzo per il delitto.
L’accusa, rappresentata dal sostituto procuratore generale Fulvio Rizzo e dal sostituto procuratore Mario Andrigo, ha replicato su alcuni punti sostenuti nelle udienze precedenti dagli avvocati difensori. Punto di particolare rilievo è quello del collaboratore di giustizia Novella perché egli fornì il movente dell’omicidio. Se in un primo momento si pensò che l’onorevole Fortugno fu assassinato da Ritorto, su ordine di Alessandro Marcianò, perché il politico voleva consegnare alla Dda delle registrazioni compromettenti che lo riguardavano, il collaboratore di giustizia affermò che Fortugno non fu ucciso per questo, ma perché i Marcianò avevano sostenuto alle Regionali l’allora consigliere uscente Mimmo Crea, condannato recentemente a 11 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del processo “Onorata Sanità”, e quest’ultimo, con Fortugno tolto di mezzo, poteva tornare a sedere in aula.
Il pm Andrigo, in un passaggio del suo intervento di ieri mattina, ha replicato a quanto affermato nelle udienze precedenti da un avvocato difensore che sosteneva nelle sue tesi che Novella è un balordo, e quindi inattendibile, poiché non aveva conoscenza dei fatti, ma li aveva appresi dai giornali e dai giornali aveva letto quanto dichiarato da Piccolo. Piccolo infatti aveva raccontato agli inquirenti che era a conoscenza del delitto poiché gliel’aveva riferito direttamente Carmelo Dessì. “Novella – ha affermato il pm Andrigo – stando agli atti processuali avrebbe avuto solo poche ore di tempo per leggere, imparare a memoria ed elaborare una strategia di falsa collaborazione così sofisticata da reggere ancora oggi”.
Nelle precedenti udienze sulla collaborazione del Novella era stato detto che essa sarebbe fittizia e forzata in quanto interessata e che la prova di queste dichiarazioni “interessate” risiederebbe in una conversazione intercettata tra lo stesso Novella e alcuni familiari avvenuta nel gennaio 2006. “Non c’è alcuna conversazione fra Novella e i familiari nel 2006 – ha replicato il pm Andrigo – al massimo il difensore si riferiva ad una conversazione avvenuta nel giugno 2006, ma sempre tale conversazione è successiva alla collaborazione di ben 3 mesi”.
Il prossimo 23 marzo la Corte d’Assise d’Appello si riunirà in camera di consiglio per emettere la sentenza di secondo grado. Nella requisitoria il pg Rizzo ha chiesto la conferma di tutte le condanne inflitte in primo grado e per i quattro già condannati all’ergastolo, Rizzo ha anche chiesto la condanna a nove anni di reclusione per associazione mafiosa, reato dal quale sono stati assolti in primo grado, mentre ha chiesto la riduzione da tre anni a 18 mesi dell’isolamento cui sono sottoposti. Il pg ha poi chiesto la conferma della condanna per associazione mafiosa per Carmelo Dessì e Antonio Dessì, mentre ha chiesto l’innalzamento della pena da 12 a 18 anni per Vincenzo Cordì, indicato come uno dei capi dell’omonima cosca.
Angela Panzera