di Fabiano Polimeni
Se c’è un rischio che va assolutamente evitato, è quello di spegnere la tv e arrendersi davanti a spread, bund, btp, deficit, punti base, pil e amenità simili. La soglia d’allerta e di informazione deve essere massima anche per la massaia, perché se è vero che la crisi strutturale che ha investito l’Italia non è figlia di questa o quella marca di detersivo che la casalinga compra abitualmente, è altrettanto vero che le soluzioni per porre rimedio alla situazione critica in cui versa il Paese avranno un’incidenza diretta anche sulla stessa massaia. Proviamo a mettere ordine tra termini, concetti, soluzioni proposte e scenari prospettabili in quello che è stato un luglio (e finora agosto) di terremoto finanziario. L’Italia si ritrova con un debito pubblico – che è il debito di uno Stato verso altri soggetti, che lo finanziano sottoscrivendo le obbligazioni emesse – pari al 120% del prodotto interno lordo, ovvero, la capacità di produrre beni e servizi di uno Stato calcolata su base annua. Se dividiamo il Pil per il numero di cittadini, avremo la ricchezza pro-capite.
La situazione è quella di uno Stato con un tasso di crescita (gli ultimi dati su base annua parlano di un +0.8% rispetto al luglio 2010, ndr) inferiore al tasso di interesse dei titoli di Stato, che è pericolosamente vicino alla soglia del 7%, percentuale che giustificherebbe un intervento di aiuto da parte dell’Unione europea. Interventi di aiuto già visti nel caso della Grecia, ma impensabili per Paesi come Italia e Spagna, molto più grandi del Paese ellenico. Italia e Spagna che sono entrambi a scontare un tasso di interesse sulle obbligazioni (Bonos quelle spagnole, ndr) con un forte spread (differenza percentuale) sui Bund tedeschi, presi a riferimento per la loro stabilità, un metro di paragone. Potremmo sintetizzare dicendo che il rischio di non veder ripagato alla scadenza il prestito che si concede allo Stato tedesco sotto forma di obbligazioni a dieci anni (Bund) è molto basso, e vale il 2,35% di interessi circa. Più ci si allontana da questo dato, maggiore è il rischio percepito dagli investitori (nazionali e internazionali, individui e banche) di non veder ripagata l’obbligazione. Per “convincere” ad acquistare una frazione di debito pubblico italiano, in questa settimana siamo arrivati a toccare uno spread di 412 punti base (+4.12% sul riferimento tedesco, venerdì 5 agosto in apertura di Borsa). Maggiore è il rischio, maggiore l’interesse da dover pagare. Spread elevati sia per l’Italia che per la Spagna, i più in difficoltà tra i big dell’Eurozona dopo il tracollo della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo. Differenziali sui Bund dettati da due situazioni diverse: l’Italia a causa dell’abnorme debito pubblico, 120% del Pil; la Spagna per un preoccupante rapporto deficit/Pil, pari al 9,2% (praticamente doppio rispetto al 4,6% dell’Italia) mentre il debito pubblico è circa la metà di quello italiano e rientra nei parametri del Patto di stabilità. Gli obiettivi da garantire a breve termine per entrambi gli Stati, sono il rientro nei parametri di Maastricht, che ha “allargato le briglie” a seguito della crisi finanziaria del 2008, quella nata negli Usa.
Gli Stati dell’Eurozona devono rientrare nei parametri del 3% tra deficit e Pil (problema spagnolo) e del 60% tra debito pubblico e prodotto interno lordo (problema italiano) o almeno mostrare un “avvicinamento tendenziale”. Qui sorge il problema e ci concentriamo sul caso italiano, quello dell’abbattimento del debito pubblico. Debito pubblico che non nasce oggi. Nel 2005 era già ampiamente sopra la soglia “d’attenzione”, pesando il 105% del Pil, poi negli anni a seguire si è attestato a 106.51% (2006), 103.60% (2007), 106.30% (2008), 116.10% (2009), 119.00% (2010). Come si abbatte il debito pubblico? Poche le strade praticabili in concreto. O aumenta la produzione (Pil), oppure, si effettuano dei tagli sulla spesa pubblica. Il problema italiano è che la crescita è irrisoria già da prima della crisi finanziaria. E’ una menzogna dire che la crisi finanziaria ha colpito l’economia italiana, azzerandone la crescita. Dal 2001 questa è stata la progressione del Pil italico: +1.8% (2001), +0.3% (2002), +0.0% (2003), +1.1% (2004), +0.6% (2005), +1.9% (2006), +1.5% (2007), -1.4% (2008), -5.1% (2009), +1.3% (2010). Un’altra differenza con la Spagna, oramai presa a compagno di sventure, che denota una crescita più che doppia tra il 2004 e 2007: dal 3.3% al 3.7%.
In questi poveri dati si comprende bene la sfiducia dei mercati nei confronti del Governo, incapace di attuare politiche di crescita economica nel passato, fanalino di coda quando gli altri crescevano a ritmi ben più elevati. L’assenza di riforme strutturali serie, annunciate e mai attuate, la scarsa competitività delle imprese italiane, la corruzione, l’evasione fiscale sono alcuni dei fattori che bloccano il Paese da decenni, e oggi i mercati non credono più alle favole del (ex) Bel Paese. Da ultima, la manovra di tagli annunciata da Tremonti, che timidamente attua qualche taglio nel breve periodo, rimandando il problema del corposo abbattimento del debito al 2014, quando l’attuale governo non sarà più in carica. E’ questa incapacità decisionale, mancanza di interventi concreti e incisivi che porta il mercato a bocciare l’Italia più delle altre economie dell’Eurozona.
Ci sarebbe da scendere ancor più nel tecnico per analizzare a fondo le ragioni di una crisi del debito che appare endemica, dagli Stati Uniti all’Europa, ma per capire l’abc di quel che sta accadendo in questi giorni, queste poche righe, certamente non del tutto esaustive, dovrebbero contribuire a definire un quadro generale all’interno del quale comprendere meglio le informazioni specialistiche che costellano giornali e tg.
Per chi volesse approfondire la questione, ecco un programma concreto, proposto da Luigi Zingales (economista e professore di Impresa e Finanza alla Booth School of Business dell’Università di Chicago) e Roberto Perotti (economista e ordinario di Economia Politica all’Università Bocconi di Milano) apparso sulle colonne de “Il Sole 24 Ore”: Articolo e Video.
Robert Kennedy nel 1968 pronunciò queste parole, «Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana… Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». Come non essere d’accordo! Ma nel sistema economico attuale, bisogna giocare con le regole comuni: spietate, ingiuste, indifferenti a molti elementi, ma comunque regole che governano e gestiscono il sistema. Visione cinica, ma al momento l’unica esistente.
Valorizzare i beni confiscati, accelerando i processi di assegnazione e utilizzo
Milano - Valorizzare i beni confiscati presenti in Lombardia, mettere a sistema ogni informazione utile ad accelerare i processi di...
Read more