Laganà Fortugno nell’anniversario dell’uccisione del marito: “Troppe omissioni e stranezze”

Locri (Reggio Calabria). Di seguito il testo integrale dell’intervento dell’onorevole Maria Grazia Laganà Fortugno in occasione della manifestazione svoltasi per commemorare Francesco Fortugno, ucciso il 16 ottobre di sei anni fa. Autorità, signore e signori,

vi ringrazio di cuore di essere convenuti qui, a Locri, per ricordare ancora una volta il mio amato Franco. La vostra presenza è il segno dell’attenzione, istituzionale, politica e personale, che ciascuno di voi continua a rivolgere alla figura di Francesco Fortugno. Ma è anche la conferma che, a distanza di tanto tempo, abbiamo tutti – o quasi – ben chiara la gravità di quanto accaduto il 16 ottobre di sei anni fa. Era di domenica, come oggi. Quest’anno, come abbiamo ricordato nei giorni scorsi, coincide con il 150° dell’Unità d’Italia e ci è parso doveroso collegare il ricordo di Franco a questa ricorrenza storica e istituzionale. Lo abbiamo voluto fare perché il nostro è un Paese nel quale esiste un’enorme sete di legalità e di giustizia, tanto più avvertita quanto più gravi sono gli effetti che la crisi sta producendo sulla vita quotidiana dei cittadini. Crisi economica, crisi politica, crisi soprattutto di valori. Così, commemorare Franco significa oggi, dopo tanti anni, andare oltre il semplice ricordo. Fosse solo per quello, naturalmente, nei miei figli e in me prevarrebbe il desiderio di vivere questo momento, per noi sempre molto doloroso, nella maniera più intima possibile. Ma c’è un’altra esigenza, più importante, che noi avvertiamo il dovere di contribuire a soddisfare. Quella di tenere alta la guardia sui temi del contrasto alla criminalità organizzata e ai poteri forti, della giustizia, dell’agibilità democratica di una regione che, come ricordato da Papa Benedetto XVI nella sua recentissima visita in Calabria, vive in una condizione di perenne emergenza. Dopo la morte di Franco, nei giorni e nei mesi successivi, si erano colti dei chiari segnali di risveglio delle coscienze, soprattutto da parte dei giovani. L’impressione che ebbi fu quella di una ribellione autentica, disinteressata: un moto di rivoluzione, una Primavera calabrese contro la tirannia della ‘ndrangheta e dei poteri forti che ad essa si accompagnano, con cui fanno affari e spesso decidono le sorti di intere comunità. Sei anni dopo, devo ammettere che purtroppo avevano ragione i pessimisti. La Calabria si è ridestata dal torpore solo per pochissimo tempo e, al di là di qualche lodevolissima eccezione da parte della società civile, il tessuto socio-politico di questa regione è tornato ad essere afflitto da quei mali endemici, e forse purtroppo incurabili, che lo caratterizzano da sempre: il clientelismo come strada maestra del fare politica, l’indifferenza, l’omertà, la sfiducia nel proprio futuro e in quello della comunità a cui si appartiene, il ricorso alla giustizia fai-da-te o, peggio, ai cosiddetti “tribunali della ‘ndrangheta” come strumento per dirimere controversie personali. Quella stessa ‘ndrangheta che attraverso i proventi dei suoi traffici illeciti ha accumulato enormi capitali che reinveste in attività legali. Quella stessa ‘ndrangheta che sostiene propri candidati e li fa eleggere. E attraverso loro decide strategie politiche, assegna appalti, nomina i “grand commis” di enti e aziende. In questo contesto, è inevitabile inoculare nuovamente, nel già sofferente tessuto socio-politico calabrese, il germe del pessimismo, dell’ineluttabilità del fato, dell’impossibilità di avere giustizia. Già, la giustizia. Sono passati sei anni dall’assassinio di Franco, ma – lo dico molto chiaramente – noi non l’abbiamo ancora avuta pienamente. Troppe risposte non date. Troppe omissioni, troppe stranezze, troppi tentativi di chiudere in fretta, il più velocemente possibile, la questione. Per coprire chi o che cosa? Io non ho ancora avuto giustizia, ed è solo quella che chiedo, perché non mi posso accontentare di una verità processuale parziale, che non arriva a definire compiutamente il quadro politico, affaristico e mafioso in cui il delitto di mio marito è maturato. Ribadisco: politico, affaristico e mafioso. Tutte e tre le cose assieme, legate l’una all’altra inscindibilmente, nel perverso intreccio che ha decretato la morte di Franco perché scomodo testimone di verità, di giustizia e legalità. Mi chiedo, e chiedo a voi: perché è stata insabbiata l’informativa in cui il boss Libri anticipava il delitto Fortugno il 13 ottobre 2005, cioè tre giorni prima che Franco venisse strappato per sempre a miei figli e a me, e la nostra vita venisse sconvolta per sempre? Se un boss del calibro di Libri sapeva in anticipo del piano per assassinare Franco, come si può continuare a credere che il delitto maturò in un contesto circoscritto a quanto contenuto nelle pur lucide sentenze di primo e secondo grado? Chi erano i funzionari incaricati di verificare il contenuto delle intercettazioni di Libri e perché non segnalarono tempestivamente quanto avevano ascoltato? In altre parole, chi non salvò la vita di mio marito? Continuo a chiedere a gran voce, a sei anni di distanza, giustizia. Giustizia piena, fino in fondo. “Se non è rispettata la giustizia – scriveva Sant’Agostino – che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande di briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati?”. E’ la verità. E io spero tanto che un giorno questo Paese mi dimostri di essere un vero Stato, e non una banda di briganti.

 

 

 

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