Non lascia spazio a dissertazioni di carattere mistico-teologico “Cantu da passioni” di Mimmo Martino e i suoi Mattanza in un’ora di spettacolo con un crescendo di tensione emotiva che trova sfogo solo nelle lacrime di un pianto liberatorio, dolce e silenzioso, dei tantissimi presenti in una serata magica, nel silenzio religioso della stupenda chiesa di Sant’Antonio, gremita. Scenografia assente, essenziale nella strumentazione acustica, per ripercorrere un percorso di una cultura rurale e contadina che del Vangelo ne ha spogliato l’elemento sacro, indiscutibile, senza profanarlo, razionalizzando e umanizzandone il dolore restandone ad esso legati da un profondo credo. Testi raccolti in una sapiente ricerca sul territorio da Mimmo Martino, insuperabile cantore, tramandati oralmente da generazioni in generazioni recitate, spesso a contorno del Santo Rosario, in un ripercorrere ora con filastrocche ora con il canto di nenie di struggente bellezza, il doloroso percorso della “Via Crucis” tragedia massima del genere umano credente della crocifissione del Cristo. Ed è quella razionalizzazione del dolore a far si che poco importa l’essere credente o meno dell’ascoltatore, andando a tracciare solchi profondi con testi aspri e duri, per una tragedia dolorosa della morte di un figlio, spesso assorbita dalla sacralità evangelica e divinizzata dall’ incommensurabile amore materno Mariano. I Mattanza mettono a nudo l’aspetto umano di questo immane dolore attingendo a quei vangeli popolari e non scritti che hanno voluto e saputo guardare all’uomo prima di saperlo figlio di Dio. Apre con la bellissima e conosciuta ninna-nanna “Madonna Mia” in un soffuso parterre della spoglia chiesa sotto un maestoso crocefisso che ne proietta la silhouette sui mattoncini spogli quasi a sottolineare la grandezza dell’essenziale. Struggente “pigliu licenza” sintesi di un colloquio tra mamma e figlio, che non ti lascia respirare per un nodo alla gola che sale inesorabile, disegnando i contorni di uno strazio per una verità, seppur nascosta, d’imminente fine, ad un rievocare gesta infantili di una mamma in pena. Impeccabili e rapiti d’atmosfera Enzo Petea alla fisarmonica, Roberto Aricò al basso, Fabio Moragas alla chitarra battente, Mario Lo Cascio alla chitarra e Lira, Giovanni Squillacioti alle percussioni, precisi in tutto. Sorprende Marika Gatto, minuta nei drappi neri del dolore di Maria, per potenza estensiva ed espressività nelle movenze misurate di un assoluto pathos seppur ricercato quasi del tutto naturale. Possente nella voce nei passaggi di dolorosa invocazione alternati a veri e propri momenti di assoluta liricità in quelli di massima intensità espressiva di una traduzione razionale dell’amore materno verso il figlio. Suggestivi e delicati le tre corde di un liuto divino che si scorda sulle debolezze umane, mentre sale un affanno inconscio con “Curri Madonna mia” per una tragedia imminente avvertita, che sconvolge i volti. Incalza, ancora, Marika, in un piangere sconsolato e amaro, in “Chiantu i Maria” superandosi per phatos e realismo toccando delicate corde dell’animo umano, con voce intensa e proprietà di fraseggio, fino a lasciarsi andare in una danza inconsulta per spasmi di una nuova creazione, in “Tarantella da Resurrezioni” non immediatamente comprensibile, ma di un fascino assoluto per movenze e ritmo. E l’applauso che Mimmo Martino aveva chiesto di riservare per la fine, per evitare d’interrompere il filo conduttore dell’opera, esplode liberatorio in una standing ovation per un bis voluto per acclamazione.
Salvatore Larocca