Reggio Calabria “Cosa nostra tentò di coinvolgere la ‘ndrangheta nella strategia stragista degli anni ’90, ci furono anche delle riunioni ma poi la cosa non si concretizzò”. Lo ha detto quest’oggi il collaboratore di giustizia Antonino Fiume nel corso del processo “Meta”, celebrato nell’aula bunker di Reggio Calabria.
Fiume, nel rispondere alle domande del pm della DDA Giuseppe Lombardo, ha tracciato la storia criminale della cosca De Stefano, con sede nel quartiere di Archi di Reggio Calabria, cui il collaboratore di giustizia era legato a causa di una relazione sentimentale avuta con la figlia di Paolo De Stefano, all’epoca boss della consorteria criminale.
I tentativi di Cosa nostra non si concretizzarono, ha riferito ancora Fiume, in quanto le cosche reggine maturarono la convinzione che non fosse conveniente “attaccare lo Stato”. Unica eccezione fu l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, un favore ai siciliani che volevano impedire che il maxi processo sulla mafia approdasse in Corte di Cassazione.
Fiume ha raccontato ancora che Giuseppe De Stefano, ora detenuto in regime di 41bis, prese il posto del vecchio boss, e gli fu conferito il grado di “crimine” in seno alla ‘ndrangheta.
Il collaboratore di giustizia nel suo racconto ha abbracciato anche il periodo della pace a Reggio Calabria dopo la guerra di mafia. Le regole della pax mafiosa furono dettate da Mico Libri. Solo un accenno, infine, ai rapporti tra ‘ndrangheta e politica: “Sono i politici – ha affermato Fiume – a cercare i mafiosi, non il contrario”.
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