Catanzaro. I Carabinieri del Ros di Catanzaro, supportati dalla locale Squadra Mobile, hanno arrestato stamane l’ex capo della Squadra Mobile di Vibo Valentia (dal 2007 al 2011), Maurizio Lento (attualmente in servizio alla Questura di Messina dopo un trascorso alla Squadra Mobile di Reggio Calabria dove si era fatto apprezzare come giovane e brillante funzionario) e l’ex vice-capo della Mobile di Vibo, Emanuele Rodonò (attualmente in servizio a Roma). Nei loro confronti, ha reso noto l’Agi nel corso di una lunga serie di lanci, la Dda di Catanzaro ipotizza il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, e particolarmente il clan Mancuso di Limbadi nel vibonese. Insieme ai due funzionari di polizia è stato tratto in arresto l’avvocato Antonio Galati del foro di Vibo Valentia, legale di alcuni componenti del clan Mancuso. L’inchiesta trae origine da un’informativa del Ros di Catanzaro denominata “Purgatorio” che inizialmente ipotizzava il coinvolgimento anche di quattro magistrati, due dei quali però totalmente prosciolti lo scorso anno dal gip e dal Tribunale del Riesame di Salerno.
Fra gli indagati c’è anche un poliziotto, Antonino Wladimiro Pititto, 44 anni, di Vibo Valentia, in servizio nella locale Questura. Nei confronti di Antonino Wladimiro Pititto, la Dda aveva avanzato al gip una richiesta di applicazione della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di pubblico ufficiale, ma il giudice ha disposto l’interrogatorio dell’indagato fissato per domani alle ore 10.30 dinanzi allo stesso magistrato distrettuale Abigail Mellace. Il poliziotto è indagato di rivelazione di segreti d’ufficio in quanto, secondo la Dda, fra il 2009 ed il 24 febbraio 2011 avrebbe riferito all’imprenditore ed ex consigliere provinciale di Vibo, Aurelio Maccarone, dell’esistenza di un’informativa di reato a carico di un componente della famiglia Maccarone redatta dal Gico della Guardia di Finanza di Milano. Aurelio Maccarone è lo zio di Antonio Maccarone, quest’ultimo arrestato nel marzo dello scorso anno per associazione mafiosa insieme al genero Pantaleone Mancuso, detto “Vetrinetta”, nell’ambito dell’operazione antimafia “Black money”.
Informative rimaste nei cassetti, controlli evitati per anni, indagini mai portate avanti, relazioni di servizio mai trasmesse alla Procura, aiuti, sostegni e molto altro. Secondo le accuse mosse dalla DDA del capoluogo, il potente clan Mancuso di Limbadi avrebbe trovato degli alleati perfetti nell’ex capo della Squadra Mobile di Vibo Valentia e nel suo vice, arrestati stamane. Figura chiave dell’indagine è l’avvocato Antonio Carmelo Galati. Si tratta del legale della famiglia Mancuso, consulente negli affari dello stesso clan, ma capace di interagire con pezzi importanti dello Stato. L’operazione portata a termine oggi dai Carabinieri del Ros e dagli agenti della squadra Mobile di Catanzaro è, a detta degli stessi inquirenti, inquietante. Perché delinea in maniera netta i ruoli di apparati dello Stato che avrebbero ceduto alle lusinghe dell’antistato.
I dettagli dell’operazione sono stati resi noti nel corso di una conferenza stampa che si è svolta a Catanzaro, negli uffici della Dda, alla presenza del procuratore, Vincenzo Antonio Lombardo, e dell’aggiunto, Giuseppe Borrelli. E’ stato quest’ultimo a ripercorrere le tappe salienti dell’inchiesta, partendo dall’operazione “Purgatorio” con cui il Ros dei Carabinieri aveva gettato le basi per i possibili sospetti su vertici dello Stato. Da lì è stato un susseguirsi di tasselli, messi insieme grazie soprattutto ad intercettazioni, che hanno permesso di confermare i rapporti tra i tre personaggi arrestati e, soprattutto, i presunti favori di cui la cosca Mancuso avrebbe goduto.
Così – evidenzia Borrelli – è l’avvocato Galati a tranquillizzare Pantaleone Mancuso (classe 1947) sul fatto che “non bisogna più avere paura della polizia”. Tra cene, bottiglie di champagne e quant’altro, ai Mancuso sarebbero state trasferite informazioni su indagini in corso, le linee di inchiesta dettate dalla Procura, le strategie decise e quant’altro potesse tornare comodo. Compresa la volontà di insinuare un clima di sospetti, paure e preoccupazioni che potessero coinvolgere quanti non sarebbero stati funzionali a certe logiche. C’e’ poi una intercettazione tra Rodonò e Galati, in cui l’ex capo della Mobile ammette di non avere potuto fare indagini contro i Mancuso “per un obbligo di amicizia e di gerarchia”. Persino arresti e controlli dovuti non sarebbero stati effettuati. Come nel caso di Pantaleone Mancuso (detto l’ingegnere), scoperto dopo avere violato gli obblighi imposti da una misura restrittiva, lasciato quindi libero e non più controllato per anni. I funzionari di polizia avrebbero vissuto con Galati un rapporto continuo. Come quando i Rodonò e Galati, in una nota struttura alberghiera di Vibo Valentia, vennero accolti con una bottiglia di champagne da Rosaria Mancuso, figlia del boss dell’omonimo clan. “Si tratta di una situazione nota e dimenticata – ha spiegato Borrelli nel corso della conferenza stampa – incompatibile con la necessaria attività di polizia giudiziaria. Galati era riuscito a creare rapporti con uomini della polizia, ma anche con esponenti dei Carabinieri subito rimossi dall’incarico”.
“Questa e’ una terra di infiltrazioni. La mafia si infiltra dappertutto e ci si lascia infiltrare”. E’ quanto ha detto il procuratore di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo, commentando l’operazione. “Non sono sicuro che la gente abbia imparato – ha aggiunto Lombardo – ma lo Stato comunque si riprende sempre il territorio”. Il procuratore ha anche ricordato che “l’avvocato Galati era già stato attenzionato nell’indagine “Do ut des”, ma ne era uscito con una posizione a lui favorevole in primo e secondo grado”.
“Quello che è stato accertato è raccapricciante” ha detto il procuratore aggiunto di Catanzaro, Giuseppe Borrelli, commentando l’operazione. “C’è stata la volontà di non chiudersi all’interno – ha aggiunto – ma di fare pulizia, facendo sinergia assoluta con la Procura. Si tratta di reparti della polizia che sono strutturalmente sani, ma purtroppo capitano situazioni di cattivo funzionamento, con il reparto che continua a godere della piena fiducia della Procura”. Secondo l’aggiunto Borrelli, “da domani ci sarà gente di Vibo che si rivolgerà a noi, perché avrà più fiducia dello Stato che è pronto a fare pulizia al suo interno. Possiamo dire che in questi anni abbiamo fatto – ha concluso – un buon lavoro di pulizia”.
Sarebbe un “soggetto non ancora individuato”, secondo il gip Abigail Mellace, il responsabile “dell’inerzia investigativa sulla cosca Mancuso” costata l’arresto degli ex vertici della Squadra Mobile di Vibo. Il gip spiega infatti che in una conversazione Rodonò riferisce chiaramente al suo interlocutore di non aver potuto indagare sui Mancuso al fine “di eseguire ordini superiori provenienti da un soggetto non ancora individuato” al quale Rodonò sarebbe stato legato da “un debito di fedeltà ed amicizia”, e da “motivi gerarchici”. Per il gip di Catanzaro, la conversazione fornisce “la prova certa ed inconfutabile” della situazione di “inerzia investigativa” sul clan Mancuso, anche se “sulla genesi di tali determinazioni di Rodonò”, secondo il gip, “è evidente che non ha inciso l’avvocato Antonio Galati”. Sulla presunta inerzia investigativa degli inquirenti vibonesi si erano già pronunciati il gip ed il Tribunale della libertà di Salerno, con conclusioni opposte rispetto alla magistratura catanzarese, in relazione all’inchiesta riguardante alcuni magistrati. I due organismi avevano invece sottolineato come l’allora pm antimafia, Giampaolo Boninsegna, avesse chiesto al procuratore della Dda di Catanzaro, Giuseppe Borrelli, il visto per l’arresto sin dal 2010 nei confronti di Antonio Maccarone, Pantaleone e Antonio Mancuso. Tale richiesta – ritenuta fondamentale dal gip di Salerno per scagionare l’ex pm della Dda – non era stata però trasmessa dalla Dda di Catanzaro ai colleghi di Salerno, ma era stata invece depositata dallo stesso Bonisegna al gip in sede di interrogatorio.