Reggio Calabria. Scorta e auto blindata per il giornalista Michele Albanese, storico corrispondente dalla Piana del “Quotidiano del Sud” nonché puntualissimo collaboratore dell’Agenzia di Stampa Ansa. La decisione è stata assunta ieri al termine di una riunione urgente del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica che si è tenuto a Reggio Calabria. Albanese è un giornalista che lavora nella Piana di Gioia Tauro, un comprensorio dove negli ultimi giorni si sono verificati diversi fatti di ‘ndrangheta, ed anche gli omaggi ai boss durante alcune processioni religiose. Tutti fatti raccontati da Albanese nei suoi articoli. Ieri Michele Albanese si trovava sul luogo di un omicidio, avvenuto a Sinopoli, quando le forze dell’ordine lo hanno convocato d’urgenza a Reggio Calabria. Ed è qui che ad Albanese è stato notificato il provvedimento. Il giornalista potrà muoversi solo con la scorta e l’autovettura blindata.
Alla base ci sarebbe una intercettazione ambientale talmente diretta che ha fatto scattare il piano di sicurezza. La notizia è stata resa nota con un corsivo del condirettore del “Quotidiano”, Rocco Valenti.
Fin qui la notizia di cronaca, che ahimè, stavolta vede protagonista un carissimo collega col quale ho avuto l’onore di lavorare per dieci anni al Quotidiano della Calabria. Michele Albanese, e proprio per questo mi è ancora più caro, è un giornalista senza fronzoli e senza orpelli. E’ uno di quei pochi, da cui tanti invece dovrebbero prendere esempio, che antepone la notizia a qualsiasi altra valutazione. Michele è un reporter serio e professionale, che racconta le cose che vede e che vive quotidianamente, ossia i fatti di ‘ndrangheta, per quello che sono, senza mai lasciarsi andare alla tentazione di “sensazionalismo” che tanta fortuna ha portato, invece, ad altri che la ‘ndrangheta l’hanno letta solo sui libri o sulle ordinanze, e che sol per questo si sentono e si dicono “antimafia”.
La decisione di assegnare la scorta e l’auto blindata a Michele ha di buono una sola cosa, che è una delle poche volte che tali misure vengono assegnate a chi veramente ne ha bisogno. Per il resto è superfluo spiegare il disagio, soprattutto per la famiglia ed i figli, che Michele dovrà affrontare.
Speriamo gli assegnino una Station Wagon, perché dovrà custodire nel portabagagli anche tutti i messaggi di solidarietà che in queste ore la società civile calabrese si affretta ad inviare. Messaggi che, direbbe un altro Albanese, un altro che di mafia se ne intende davvero, non servono a una “beata minchia”. La solidarietà non serve a coprire le spalle a Michele, né a evitare che simile porcate accadano di nuovo ai danni di altri colleghi. E allora, se proprio volete rendervi utili, chiedete innanzitutto chi minaccia Michele Albanese, e subito dopo chiedete con forza un inasprimento “ragionato” della nostra legislatura-spazzatura. Attenzione però. Aumentare le pene serve quanto la solidarietà, a nulla. Qui si impone per il governo e il Legislatore di prendere delle contromisure efficaci, e non sparare in aria leggi e decreti come se fossero spermatozoi, sperando che almeno uno vada a segno.
Le leggi per arrestarli ci sono. Il problema vero è la certezza della pena, e il modo in cui gli ‘ndranghetisti scontano la pena. Vogliamo evitare che questi “bravi ragazzi” che sono in galera continuino a inquinare la nostra vita proseguendo beatamente a impartire ordini all’esterno? Bene, basta volerlo. Cominciamo a ricostruire supercarceri, a riaprire quelle splendide strutture da villeggiatura penitenziaria che erano Pianosa e l’Asinara, e iniziamo a “concentrare” queste “brave persone” tutte insieme, ma senza che possano parlare tra loro. L’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario va cancellato… e riscritto con mano virile. Sei stato condannato per mafia? Prego, accomodati in cella, ne uscirai fra 20 anni. Nel frattempo non gli si deve consentire di vedere neanche moglie e figli. Carcere duro senza tentennamenti. Temo però che la nostra classe politica non avrà mai il coraggio di simili iniziative.
Altrimenti, potremmo chiedere aiuto ai nostri alleati americani. Loro sì che sanno come si costruisce un supercarcere, anni fa ne hanno fatto uno in cui ogni cella era scavata nella roccia. Visto che gli Usa hanno inserito la ‘ndrangheta nella black list delle organizzazioni criminali internazionali, cediamo i prigionieri di mafia agli Usa, sono certo che se una donna come Silvia Baraldini è riuscita a sopravvivere alle carceri dure americane, anche i nostri bravi “uomini d’onore” non avranno nulla da temere. E finalmente nemmeno noi più da loro. Quanto ci piacerebbe vederli con la loro coppola in testa, e la tuta arancione a Guantanamo.
Fabio Papalia