di Monica Bolignano
Reggio Calabria. “Siamo stati grandi quanto gli altri, qualche volta più degli altri”. In un’atmosfera teatrale, volutamente minimalista, è andato in scena, presso il Circolo del Tennis Rocco Polimeni, “1861 la brutale verità”, l’adattamento dell’omonimo testo di Michele Carilli. Si sminuirebbe l’essenza della rappresentazione se la si denominasse semplicemente “spettacolo” e non solo per il portato contenutistico del narrato, quanto per le modalità di “somministrazione” che, grazie alla poliedrica interpretazione narrante di Gabriele Profazio, coadiuvato dalla “brigantessa” Marinella Rodà, entrambi accompagnati dalle musiche dei Mattanza, interpretate da Alessandro Calcaramo e Mario Lo Cascio, hanno condotto la platea in un viaggio attraverso la “storia cancellata” degli anni della sanguinosa guerra civile che ha disintegrato, prima, e cancellato, poi, il Regno delle Due Sicilie durante il periodo del Risorgimento italiano.
Come i vecchi e amati cantastorie, Profazio ha condotto gli spettatori attraverso una viva rievocazione realizzata grazie alle testimonianze di coloro che sono stati, loro malgrado, i protagonisti di una terribile pagina di storia.
Per riuscire, in una sola frase, a dare l’idea dell’imponenza del Regno delle Due Sicilie, all’epoca dei fatti, basta cercare le impressioni e gli appunti di viaggio degli intellettuali dell’epoca che si cimentavano nel Grand Tour, tra queste ritroviamo un’affermazione attribuita a Stendhal “In Europa ci sono due capitali: Parigi e Napoli.”, correva l’anno 1817.
Nell’ottica dell’illuminata dinastia Borbonica i sovrani misero in pratica una politica riformatrice tendente alla massima autonomia del Regno ed il periodo che vide la massima e più completa espressione di quel riformismo politico e sociale, inaugurato dal re Carlo il restauratore, fu durante il regno di Ferdinando II.
“C’era una volta …” un regno unito dal 1130, che, all’epoca dell’invasione, era tra i più industrializzati e fiorenti del mondo, un luogo in cui il benessere economico veniva perseguito in funzione del benessere sociale. Fiore all’occhiello dell’industria Duosiciliana erano le famose fonderie di Mongiana, uno stabilimento che, nel suo campo, raggiunse tutti i primati possibili per dimensioni ed efficienza tecnica; si parla di una produzione che sfornava al giorno in media 1.442 canne per fucile e 1.212 canne per pistola, tanto che era proprio a Mongiana che venivano inviati, da tutte le parti dell’Europa, Russia compresa, tecnici per studiare la meticolosa e “futuristica” lavorazione dei metalli. Ancora, nel 1861, quando oramai le sorti di Mongiana erano segnate, gli acciai lì prodotti ottengono un premio all’Esposizione industriale di Firenze e, l’anno successivo, ghisa, ferro, lame damascate, carabine di precisione, sciabole e armi prodotte dai calabresi sono premiati all’Esposizione Internazionale di Londra.
Non dimentichiamo l’Opificio ferroviario di Pietrarasa: i Duosiciliani erano in grado di costruire tutta la “filiera” ferroviaria: dalla rotaia alla locomotiva! E lo stabilimento era talmente famoso, per la sua eccezionalità e funzionalità, che lo zar di Russia mandò i suoi ingegneri per copiarlo integralmente al fine di costruirne uno identico: le Officine Kronstadt. Non potevano mancare i cantieri navali che diedero vita ad una straordinaria flotta militare ed una efficientissima flotta mercantile, che mantenne per lungo tempo in Europa l’egemonia per il controllo dei commerci nel Mar Mediterraneo.
Anche il primato occupazionale del Regno delle Due Sicilie è “spaventoso”: ben un milione e 600 mila persone impiegate nelle industrie, contro i 350 mila occupati in Piemonte e Liguria. Per non parlare dell’agricoltura dove i Duosiciliani occupati sono oltre i tre milioni!
Ma l’eccezionalità della politica Borbonica non è circoscritta solo alla tecnica ma anche, e soprattutto, alla scienza, tanto che alla Mostra del 1856 a Parigi, il Regno delle Due Sicilie viene premiato come il paese più industrializzato d’Italia … terzo nel mondo! Il Regno vantava, anche, ben quattro università, tra le più antiche d’Europa, e il maggior numero di studenti universitari. Il 55% dei libri pubblicati in Italia, ad esempio, erano stampati da case editrici napoletane, che utilizzavano, addirittura, la carta prodotta nel Regno: una carta così pregiata che aveva destato l’ammirazione dei più grossi industriali del ramo, nel 1829 Niccolò Miliani, proprietario delle note cartiere di Fabriano, venne al Sud nella Valle del Liri e si meravigliò di vedere “un foglio di carta come un lenzuolo”, si chiese “come diavolo si potevano ottenere formati così grandi”.
Era stato creato perfino un Gabinetto di Fisica del Re e durante l’anno venivano organizzati numerosi congressi scientifici di notevole spessore; fu fondato anche l’Osservatorio Sismologico Vesuviano (primo al mondo), con annessa stazione meteorologica. Non può non annoverarsi, ovviamente, il Teatro San Carlo di Napoli dove si rappresentavano spettacoli tutto l’anno e per questa struttura ritroviamo una testimonianza d’eccezione: quando, infatti, il famoso scrittore francese, Stendhal, in visita a Napoli, si trovò di fronte al maestoso teatro scrisse: “La prima impressione è d’essere piovuti nel palazzo di un imperatore orientale. Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita. Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea”.
Per non contare che, in termini economici, lo Stato Duosiciliano possedeva un “patrimonio” doppio rispetto a tutti gli altri stati della penisola messi assieme. Al momento dell’ “annessione”, infatti, grazie alla grande politica di investimenti e di risanamento voluta da Ferdinando II, il Regno delle Due Sicilie, poteva vantare un patrimonio di moneta di 443,2 milioni di lire, pari al 66,3% della ricchezza, contro il 33,7% di tutti gli altri staterelli.
Ma ecco che d’un tratto, ovviamente, per ragioni di natura squisitamente economica – il Piemonte era pieno di debiti, il Regno delle Due Sicilie, invece, era pieno di soldi, e, con il compimento dell’Unità d’Italia, si sarebbe fatta “cassa comune”: con i soldi del Sud si sarebbero potuti pagare i debiti del Nord – fu così che il meraviglioso Regno delle Due Sicilie viene attaccato, contravvenendo a tutte le “norme” di diritto internazionale allora vigenti, e senza alcuna dichiarazione di guerra: “Ho creduto nella buona fede che il Re del Piemonte che si diceva mia fratello – tuona Francesco II di Borbone nel proclama dell’8 dicembre 1860 – mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo una alleanza intima pe’ veri interessi d’Italia, non avrebbe rotto tutt’i patti e violate tutte le leggi, per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra”.
Dietro l’invasione sabauda c’erano gli inglesi che pilotano e finanziano l’attacco: l’Inghilterra era interessata, in primo luogo, al primato mercantile nel Mediterraneo nonché al controllo delle zolfare di Trapani; gli inglesi coprono lo sbarco dei furfanti garibaldini con due velieri, l’Intrepid e l’Argus, e sovvenzionano l’incursione con 23 milioni di franchi che servono ad “ammorbidire” i graduati dell’esercito e gli alti funzionari borbonici.
Una volta arrivati i Piemontesi la situazione degenera.
Ed ecco che la narrazione del Profazio cambia: adesso “racconta” la voce del popolo, quel popolo che si vede schiacciato da un invasore che impone nuove tasse, che strappa i figli al lavoro dei campi per la leva militare e che si trova di fronte al lacerante bivio “briganti o emigranti”.
Il brigante, nell’accezione comune del termine, è un “delinquente”; il brigante, nell’accezione “classica”, quella cui si è soliti fare riferimento – il “brigante meridionale” – invece è colui (o colei) che dichiaratosi fedele al Re viene etichettato come bandito ed è costretto alla macchia. In un primo momento, ex militari, contadini, artigiani, commercianti si diedero al Brigantaggio nella speranza di riuscire ad organizzare la Resistenza contro l’invasore, ed è in questo contesto che si evidenziano, tra le altre, le figure di Carmine Crocco, il Generale dei Briganti, del suo Luogotenente Ninco Nanco e delle Brigantesse Filomena Pennacchio e Michelina Di Cesare. Chiaramente ci troviamo di fronte a gente che, abbastanza organizzata, ben introdotta nel territorio e, soprattutto, con l’appoggio della popolazione, diede molto filo da torcere agli invasori. Le sorti della Resistenza cambiano nel momento in cui, messo alle strette, il Governo centrale emana la Legge Pica, del 15 agosto 1863, che prevedeva tra l’altro, il vergognoso, “diritto di rappresaglia”. Ecco che la situazione degenera in modo rovinoso, perché i bersaglieri fanno scempio nelle campagne e nelle città: dal diario di Carlo Margolfo: “Entrammo nel paese, subito abbiamo cominciato a fucilare preti, e uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, e infine abbiamo dato l’incendio al paese. … Quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli, che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case.” A fine giornata il bersagliere piemontese aggiunge un’ultima annotazione: “Il nido di briganti, questo Pontelandolfo, ora si è domesticato per bene”.
Data la situazione si comprendono quali possano essere state le principali ragioni che portarono bel 30 milioni di meridionali ad emigrare nelle Americhe… 30 milioni di meridionali emigranti. L’intera famiglia reale, però, rimane a difendere il regno.
Francesco II salì al trono a soli 23 anni, certamente non possedeva a forza di carattere del padre, né, ovviamente, l’esperienza politica, ma era un uomo ricco di bontà, di umanità, di profonda fede e senso del dovere verso i sudditi, specie verso i più bisognosi.
Il nostro re si trovò coinvolto in uno dei più grandi complotti internazionali della storia, e, soprattutto, dinanzi al tradimento dei suoi ufficiali e dei suoi uomini di governo e più vicini e “devoti” consiglieri: il più “celebre” Liborio Romano il primo ministro.
Quando si rese conto che tutto era perduto, per evitare spargimenti di sangue civili, lasciò Napoli e si rifugiò nella fortezza di Gaeta, seguito da tutti coloro che volontariamente decisero di salvare l’onore combattendo dalla parte del legittimo ed amato sovrano.
“Il mondo intero l’ha veduto; per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia corona. I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto a’ fedeli nel mio consiglio; ma nella sincerità del mio cuore, io non poteva credere al tradimento. (…) In mano a cospirazioni continue non ho fatto versare una goccia di sangue, ed hanno accusata la mia condotta di debolezza. (…) Nel momento in che era sicura la rovina de’ miei nemici, ho fermato il braccio de’ miei generali per non consumare la distruzione di Palermo, ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per no esporla agli orrori di un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo piú tardi in Capua ed in Ancona.”
La storia dell’assedio di Gaeta è tristemente nota; mai un assedio fu condotto con tale asprezza: occorre infatti ricordare che il famigerato generale Cialdini ordina di bombardare la cittadella anche per dieci ore ininterrotte!
Francesco II che, viene schernito dai cronisti dell’epoca “vezzeggiando” il suo nome in “Franceschiello”, per sminuire la sua autorità ed il suo carattere di fronte all’Europa, viene additato dalla storiografia ufficiale come il re debole: il Re che ha perso il suo regno! Ma il comportamento eroico del re durante l’assedio valse a riscattarlo dalle sue debolezze politiche: “Tuttavia seppe, di fronte alla storia, riscattare i propri insuccessi con l’assedio di Gaeta cui partecipò con audacia, – scrive Giuseppe Coniglio – per dimostrare all’Europa che sapeva agire, e vi riuscì in pieno (…) sarebbe stato facile per i due sovrani fuggire (…) ma Francesco non volle piegarsi a questa umiliazione e preferì combattere (…)”.
Ed accanto a Francesco II, inseparabile, la sua dolce moglie, la regina Maria Sofia, chiamata teneramente dai sudditi “bella guagliona nostra”, che durante l’estenuante assedio di Gaeta, e nonostante gli inviti accorati del marito affinché si allontanasse dalla fortezza, non si arrese mai. Risoluta e volitiva, assistette ed incoraggiò i sudditi ed i soldati durante tutto il periodo dell’assedio con tenerezza e tenacia guadagnandosi il “titolo” di “eroina di Gaeta”.
Nel frattempo tutta l’Europa condanna l’operato inglese/sabaudo, ma nessuno interviene!
“La storia – conclude Profazio, questa volta nella veste di narratore – viene scritta dai vincitori, ma se ascoltiamo attentamente dentro di noi, riusciremo a sentire le urla dei nostri antenati, che non sono così lontani. 150 anni ci separano dalla verità, una verità brutale, troppo a lungo celata, perché – riprendendo le parole di Nicola Zitara – siamo stati grandi quanto gli altri, qualche volta più degli altri. E’ necessario che la coltre di bugie che circonda la nostra identità collettiva sia fugata. La consapevolezza del passato ci aprirà gli occhi e ci permetterà di guardare al futuro!”
Real Casa di Borbone delle Due Sicilie
http://www.realcasadiborbone.it/
http://www.realcasadiborbone.it/dinastia/monarchia/sua-maesta-francesco-ii-re-delle-due-sicilie/
Proclama dell’8 dicembre 1860 http://www.duesicilie.org/OLDSITE/proclama.html
Bibliografia sulla vera storia del Risorgimento http://gruppobriganti.blogspot.it/2014/03/bibliografia-sulla-vera-storia-del.html
“Angelina Romano, martire dell’Unità d’Italia”, di Valerio Rizzo
http://gruppobriganti.blogspot.it/2011/05/la-piccola-angelina-romano-martire.html
“Li chiamarono Briganti”, regia di Pasquale Squitieri.
http://gruppobriganti.blogspot.it/2012/06/li-chiamarono-briganti.html