Reggio Calabria. Nella città in cui il negozio di Tiberio Bentivoglio, testimone di giustizia cui la ‘ndrangheta ha dichiarato guerra, per poter vivere viene vigilato giorno e notte dai militari dell’Esercito italiano c’è chi ha scelto un sistema di protezione diverso. E’ Carmelo Salvatore Nucera, l’imprenditore che per i magistrati della Direzione distrettuale antimafia reggina sarebbe colluso con le cosche. Per “schermare” la propria vetrina dagli attacchi violenti di un concorrente indicato dall’accusa quale esponente della criminalità organizzata reggina, infatti, non avrebbe esitato a tenere la saracinesca alzata ventiquattro ore su ventiquattro.
Il rappresentante di dolciumi, finito in manette nell’inchiesta “Sistema Reggio” a cui il procuratore Federico Cafiero de Raho ed i suoi sostituti procuratori Roberto di Palma e Rosario Ferracane contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, aveva deciso di affittare e riaprire l’ex “Bar Malavenda” di Santa Caterina nonostante il “niet” di un concorrente scomodo: Mario Vincenzo Stillitano, ritenuto dagli inquirenti il responsabile di zona della cosca Condello. Nucera, secondo la tesi degli investigatori della Squadra mobile, avrebbe fatto il diavolo a quattro pur di superare le resistenze del titolare del “Fashion cafè” che non voleva avere avversari commerciali in zona. Invece di rivolgersi allo Stato davanti alle minacce velate che aveva ricevuto e alla ferma opposizione di Stillitano, Carmelo Salvatore Nucera avrebbe scelto di scomodare il gotha della ‘ndrangheta reggina, interessando anche l’avvocato Giorgio De Stefano: l’eminenza grigia della criminalità in riva allo Stretto. Ne era nata un’estenuante trattativa, al termine della quale si era trovata la “giusta quadra” e Carmelo Salvatore Nucera alla fine quel bar era riuscito anche a riaprirlo.
Per mettere al sicuro il suo investimento, poi, Carmelo Salvatore Nucera si diceva pronto a lasciare aperto l’ex “Bar Malavenda” senza soluzione di continuità, ventiquattro ore al giorno, per evitare che i diretti concorrenti potessero prendere di mira il locale con azioni ritorsive, e così fece.
Altro che Esercito. A Carmelo Salvatore Nucera bastava un “banconista di peso” e molta attenzione, anche a chi chiedeva la cortesia di poter usufruire della toilette. Ragionando con la figlia, come registrato dalle microspie piazzate dagli investigatori diretti dal capo della Mobile, Francesco Rattà, dentro il negozio di Santa Caterina, Carmelo Salvatore Nucera ipotizzava diversi scenari per un eventuale attentato. “Partendo da una bomba analoga – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip Minniti – alle precedenti che comunque non avrebbe impedito la riapertura, mettono una cosa a giochetto come hanno fatto la prima volta, fa 500, 1000 euro di danno, sono cazzate”.
Passando ad un ordigno di più alto potenziale piazzato di notte ma che sarebbe stato scongiurato dai guardiani notturni: “… o tentano qualcosa di più grosso perché è una cosa logica, dice non glielo fanno aprire … poi renditi conto, si trovano tre persone che stiano qui di sera“. Finendo all’ipotesi più devastante, di giorno approfittando della presenza di operai piazzandolo nei bagni: “metti che entra qualcuno e ti mette qualcosa dentro mentre ci sono gli operai … tu sai una persona che dice che va in bagno e mette una cosa là e la fa scoppiare con le persone dentro? ci sono le telecamere … allora dopo che vanno in bagno uno deve andare a controllare?”. O, infine, perché i locali dei bagni sarebbero rimasti chiusi costringendo gli avventori a richiedere la chiave: “chiudiamo … chi entra deve chiedere la chiave, chiudere il bagno con la chiave”.
E se anche questo stratagemma non avesse funzionato e il bar fosse stato nuovamente danneggiato, Carmelo Salvatore Nucera, come si legge nelle carte dell’inchiesta, era pronto a cambiare strategia, anche a dare vita ad una concorrenza spietata a colpi di ribassi: “mi fannu chiddu chi bonnu, non mi interessa niente e se mettono la terza bomba, ritardo 10 giorni, ma riapro e non chiudo più, glielo puoi dire, però a quel punto che succede … se deve durare due anni aperto, lo faccio durare 6 mesi e gli metto il caffè a 50 centesimi e li faccio chiudere subito … io cammino per la mia strada, poi che facciano quello che vogliono … non mi preoccupa nessuno”.
Lo stesso erano pronti a fare un paio di dipendenti del nuovo bar “Ritrovo Libertà”, il nuovo nome dato all’ex “Bar Malavenda”, i quali, stando al racconto di Carmelo Salvatore Nucera, avrebbero avuto una discussione con il “concorrente” di Nucera, per difendere il proprio posto di lavoro: “sono andati due lunedì mattina là sotto, Stillitano, lo hanno chiamato… vedi che noi siamo stati assunti da quel bar, se caso mai succede qualcosa vedete che veniamo qua a fine mese e ci dai 1200, perché noi siamo disoccupati e dobbiamo lavorare, se qua non possiamo aprire perché lo hai detto tu, veniamo qua e ci dai i soldi“.
Giovanni Verduci
nella foto: la notte dell’esplosione di un ordigno all’ex bar Malavenda