«La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi non oseremmo desiderare» disse Don Chisciotte a un Sancio incredulo, prima di lanciarsi contro quei mulini a vento che lui considerava giganti. La lotta contro il sopruso e le ingiustizie di un nobile cavaliere pervaso da savia pazzia ed in cerca di fortuna e gloria hanno così segnato la letteratura spagnola prima e mondiale poi, al punto che dopo 5 secoli dalla originale stesura (iniziata a Messina), una regione nobile, orgogliosa e ribelle, in Spagna, si lancia contro lo Stato centrale alla ricerca dell’indipendenza.
Mès que un club! 4 parole che racchiudono secoli di storia, identità e appartenenza. Chiunque sia andato al Camp Nou è stato accolto da queste 12 lettere, che per i cittadini di Barcellona sono un credo, un motto, uno stile di vita. E in questi giorni queste parole hanno oltrepassato l’ambito sportivo per abbracciare, sempre di più quello sociale.
Nel panorama geopolitico internazionale, così ricco in questi giorni di inizio autunno, tra la crisi nordcoreana, il referendum consultivo nel Kurdistan che agita il Medio Oriente e le, quantomai scontate, elezioni in Germania, spicca, per importanza degli equilibri di stati sovrani, la questione catalana. O spagnola, a seconda del punto di vista.
Il primo di ottobre, infatti, si dovrebbe tenere il referendum per l’indipendenza catalana. Il condizionale è dovuto al fatto che il governo centrale di Madrid guidato dal primo ministro conservatore Mariano Rajoy, molte forze di opposizione ed il Tribunale costituzionale, ritengono il referendum illegale, contrario alla Costituzione, e pertanto negli ultimi giorni sono stati presi severi provvedimenti in merito. Tra questi la decisione di commissariare i “Mossos d’Esquadra”, la polizia autonoma catalana (nonché la polizia più antica d’Europa), ed impiegare la Polizia nazionale e la Guardia Civil, alle dirette dipendenze di Madrid, in operazioni che hanno portato alle perquisizioni di uffici pubblici, sequestro di materiale relativo al referendum e infine all’arresto di funzionari e dipendenti pubblici catalani.
Non sarebbe la prima volta che in Catalogna si cerca di rivendicare l’indipendenza attraverso un referendum, già tre anni fa, anche allora bloccato dal tribunale, il tutto si risolse in una consultazione informale.
Le origini della Catalogna e dell’identità catalana
Ma per comprendere meglio le origini di questa fortissima identità catalana e questo orgoglioso rivendicare un’indipendenza “de facto”, bisogna partire da molto lontano, come per la maggior parte dei casi simili che interessano Scozia, Crimea, Cecenia e Kosovo.
La Catalogna, è una delle 17 comunità autonome spagnole, e sin dai tempi più antichi ha risentito delle influenze di fenici, greci, romani (il “Barrio Gotico” sorge sulla vecchia colonia romana ), ed in particolare della dominazione araba dopo che nel 711 i musulmani attraversarono lo stretto di Gibilterra e conquistarono la penisola iberica, si assistette nel nord, tra le montagne, alla formazione di diversi nuclei cristiani. Fu così che presero vita regni e contee, quella catalana in particolare si unì sotto la casata di Barcellona.
Il nome “Catalogna”, in quanto tale, cominciò a essere utilizzato alla metà del XII secolo per designare l’insieme di contee che formavano la Marca Ispanica e che si erano svincolate, gradualmente, dalla tutela franca fino a divenire sovrane. Tra le tante teorie che ruotano attorno all’origine del nome Catalogna , vi è quella dell’arabista catalano Joan Vernet, il quale citava come primo possibile testimone del nome della Catalogna il cronista e geografo musulmano al-‘Udrī, il quale a sua volta nella sua opera Tarsi al-akhbār parla di Qa Talunya, contrazione di Qal’at Talunya (“il castello di Talunya”, una località situata a metà strada da Lleida a Huesca, nei pressi dell’attuale Monzón). Secondo questa ipotesi, gli arabi avrebbero designato gli abitanti della Marca Ispanica come «quelli che vivono al di là di Qa Talunya». L’origine araba, forse a partire da un toponimo ibero, potrebbe spiegare la mancanza di corrispondenza esatta tra il gentilizio català e il toponimo Catalunya.
Il Principato di Catalogna è un termine giuridico che apparve soltanto nel XIV secolo per indicare il territorio soggetto alla giurisdizione delle Corts Catalanes (“Corti Catalane”), territorio il cui sovrano (in latino princeps) era il re d’Aragona del Casato di Barcellona. Ciononostante, questo territorio non era formalmente un regno, bensì un raggruppamento di contee con delle leggi uniformate dalle Corts, e una entità politica equivalente al rango degli altri regni della corona. Per questo motivo, il Principatus di Catalogna non è mai stato un “principato” nel senso giuridico del termine, pertanto un titolo personale di “principe di Catalogna” non è mai esistito. Nonostante il territorio del Principatus fosse confederato sotto la Corona d’Aragona, e questa venne in seguito annessa al Regno di Spagna (tranne una sua porzione, il territorio conosciuto attualmente come Catalogna del Nord, che venne ceduto alla Francia), il termine Principat continua a essere utilizzato anche oggi, informalmente, per designare le quattro province di lingua catalana che costituiscono la “Comunità Autonoma” di Catalogna (Barcellona, Girona, Tarragona e Lleida).
I conti di Barcellona dettero poi vita, nel XII secolo, a una unione con il re di Aragona. Non passò molto tempo che la Catalogna, a capo della corona d’Aragona, iniziò ad avventurarsi nel Mediterraneo arrivando a controllare la Sicilia, la Sardegna e Napoli tra il XIV e XV secolo.
Nel 1475, l’unione dinastica tra il Re della confederazione catalano–aragonese e la Regina di Castiglia farà confluire in capo alla stessa famiglia i due regni. Nacque così la monarchia ispanica, una confederazione di regni che condivideranno un Re ed una diplomazia comuni. Ma l’equilibrio si spezzò quando il figlio di Carlo V, Filippo II, iniziò a governare secondo il modello castigliano imponendo leggi ed interessi propri sugli altri regni.
Per questo motivo i catalani, nel XVIII secolo, si allearono con l’Inghilterra, l’Olanda e l’Austria per portare al potere un Re più vicino alla loro visione politica, l’arciduca Carlo. Ma quando Filippo V, capostipite della dinastia Borbone, nel 1714 vinse la guerra di successione spagnola, la Catalogna e la Corona d’Aragona diminuirono ancora in potere mentre la Corona di Castiglia, al contrario, si fortificò. Da quel momento i catalani persero non solo il loro Stato, le loro istituzioni e le loro leggi ma anche qualunque capacità di decisione politica.
Quello che successe nel 1714, ad ogni modo, è il motivo per cui l’11 settembre di ogni anno in Catalogna si celebra la “Diada Nacional de Catalunya” (“La giornata nazionale della Catalogna”), e quello che spiega perché al minuto 17.14 delle partite di calcio del Barcellona, il cui motto è Mès que un club (più che una squadra), i tifosi della squadra catalana intonano cori a favore dell’indipendenza.
Sebbene sottomessa, la Catalogna si adoperò nel portare avanti la propria economia. Così, nel secolo XIX, era già la regione più industrializzata e produttiva della Spagna. Gli imprenditori chiesero anche allora allo Stato Spagnolo una politica più protezionista, infruttuosamente. Quando le proteste si acuirono l’esercito spagnolo rispose con la forza e Barcellona fu bombardata nel 1842.
La dittatura militare
Nel 1923 i contrasti sociali frutto delle precarie condizioni di vita degli operai e il collasso politico condussero ad un colpo di Stato e allo stabilimento in Spagna di una dittatura militare che abolì l’autonomia catalana e represse il catalanismo. Ma pochi anni dopo si assistette al crollo del governo autoritario e all’avvento della Seconda Repubblica spagnola (1931).
Con l’avvento di Franco e la Guerra Civile, le istituzioni d’autogoverno furono abolite, si vietò la lingua catalana in ambito pubblico e si impose l’idea della Spagna unica ed indivisibile. Ma le conseguenze più tristi della repressione franchista furono rappresentate dai più di centomila esuli e da circa 4000 catalani uccisi.
Nella fase di transizione dalla dittatura alla democrazia, successiva alla morte di Franco nel 1975, decisivo sarà il contegno del nuovo Re Juan Carlos. Nel 1978 un referendum approvò la nuova Costituzione spagnola e, nel 1979, lo Statuto catalano, che venne successivamente modificato nel 2006 .
Questo garantiva alla “nazione” catalana maggiori poteri, soprattutto in campo finanziario. La Catalogna arrivò a godere di una certa autonomia con un suo inno, una sua bandiera e una sua lingua, il catalano, che non divenne obbligatoria, ma è parlata da tutti i dipendenti pubblici ed usata negli atti ufficiali. Nel 2010, però, il Tribunale costituzionale spagnolo dichiarò l’incostituzionalità di diversi articoli del nuovo statuto, tra i quali quello in cui la Catalogna veniva definita una “nazione”.
Il nome ufficiale del governo della Catalogna (formato dal consiglio, dal parlamento e dal presidente) è Generalitat de Catalunya in catalano. Alcuni però applicano scorrettamente questo nome soltanto al Consiglio, come se fosse la stessa cosa del gabinetto di governo. Generalitat de Catalunya, invece, designa tutto il sistema istituzionale di autogoverno catalano (all’interno dello Stato spagnolo ma non sotto l’autorità diretta del governo centrale di Madrid).
Ragioni economiche
Uno dei motivi per cui si chiede l’indipendenza da Madrid, ovviamente, è il fattore economico. L’area catalana è quella dove, in Spagna, si concentra il maggior numero di imprese, oltre 600mila ( di cui 600 italiane), e dove si registra il maggior numero di occupati. Inoltre, a incidere su tutto il Paese, è il Pil di Barcellona e dintorni che nel 2016 è cresciuto del 3,5%, tre decimi in più di quello spagnolo. Così, il peso della regione sul sistema del Paese è alto, perché produce tra turismo ed industrie circa il 19% del Pil nazionale.
Barcellona, su questo fronte, ha sempre chiesto al governo centrale una maggiore autonomia fiscale, più o meno inutilmente.
Le analisi condotte dagli economisti delineano però conseguenze non completamente favorevoli all’indipendenza catalana in quanto se è pur vero che la Catalogna, è l’area più ricca delle 17 regioni spagnole, è anche vero che il 16% della popolazione residente è spagnola e secondo l’economista dell’università di Saragozza, Alain Cuenca “la perdita di posti di lavoro sarebbe rapida per entrambe le parti e queste perdite sarebbero provocate da ostacoli al commercio, problemi finanziari e per il fabbisogno finanziario del nuovo Stato”. Secondo le stime il principale vantaggio per i catalani indipendenti sarebbe costituito dai 16 miliardi di tasse dovute a Madrid che, nello scenario della secessione, sarebbero trattenute sul territorio. Sull’altro piatto della bilancia, però, c’è che il 35,5% delle esportazioni del nascente Stato indipendente sarebbero dirette verso una Spagna probabilmente incline a boicottare i prodotti della regione ribelle. Il ministro dell’Economia spagnolo, Luis de Guindos, ha stimato che la Catalogna potrebbe perdere fino al 30% del suo Pil in caso di secessione.
La UE
Discorso a parte riguarda lo status della Catalogna all’interno dell’Ue. Infatti, come per la Scozia, altrettanto volenterosa di staccarsi dal Regno pur rimanendo parte dell’Unione Europea, non sarebbe possibile innescare nessun accesso automatico. Perché un Paese entri nell’Ue è necessario il consenso di tutti i membri: e allo stato dei fatti è improbabile che la Spagna lo conceda. Analogamente alla questione Brexit, invece, si andrebbe ad aggiungere il nodo dell’accesso al mercato unico: nella fase di transizione quel 65.8% di esportazioni catalane andrebbero, potenzialmente, a scontrarsi con le barriere commerciali “standard” nell’ambito del Wto.
Il principio di autodeterminazione dei popoli
In passato la questione catalana ha suscitato entusiasmo ed infiammato i cuori di sedicenti capipopolo nostrani e politicanti da bar i quali invocando il principio di “autodeterminazione dei popoli” credevano di poter rivendicare improvvisate autonomie ed indipendenze di fantomatici Granducati della Lomellina o Regno della Garfagnana, omettendo che tale principio, al quale si è arrivati dopo un millennio di lotte fratricide, battaglie, un congresso di Vienna e un paio di guerre mondiali, si rifà al Diritto Internazionale. E proprio secondo quest’ultimo il principio di base prevede che l’integrità territoriale sia prevalente rispetto al diritto all’autodeterminazione. Pertanto una popolazione non ha diritto ad autodeterminarsi se questo mette in discussione l’integrità dello Stato di cui la popolazione in questione fa parte. Si afferma dunque che ad avere diritto all’autodeterminazione esterna è l’intera popolazione residente in un’area predefinita, non solo una parte di essa, pena l’infinita frammentazione. E’ la comunità degli Stati a dover riconoscere se sussistono le condizioni di: dominazione, colonizzazione, apartheid. Un popolo non può dunque dichiarare unilateralmente la propria autodeterminazione, e se lo fa, compie un atto illegale. A maggior ragione se tale “popolo” vive all’interno di uno Stato democratico, in mancanza cioè di una seria condizione di oppressione.
Il referendum dell’1 ottobre 2017
Arrivando ai giorni nostri, il presidente catalano Carles Puigdemond, ha indetto per il primo ottobre 2017 il referendum per l’indipendenza della Catalogna nonostante l’opposizione del governo centrale, che ha immediatamente dichiarato incostituzionale la consultazione. Tale referendum è forte di un 80% di consenso popolare e come risposta alla forte censura imposta dal governo di Madrid, ha portato in piazza migliaia di persone a Barcellona come nelle altre province. La situazione dell’ordine pubblico è sotto osservazione, tanto da costringere Madrid a noleggiare tre navi italiane delle compagnie Grandi Navi Veloci e Moby Lines, che sono già attraccate nei porti di Barcellona e Tarragona, con la chiara intenzione di utilizzarle come “caserme galleggianti, innescando però la protesta del sindacato dei lavoratori portuali, che ha negato il rifornimento alle navi dei servizi necessari, oltreché suscitare l’ilarità generale poiché alcune delle navi erano dipinte con personaggi dei cartoni animati e si è reso necessario coprirle con dei teloni.
Anche la Chiesa si è sentita in dovere di cercare una mediazione. E’ notizia di ieri, che 420 ecclesiastici hanno scritto al Papa, chiedendogli di mediare con il governo spagnolo affinché consenta lo svolgimento del referendum dell’1 ottobre e ponga fine alla “repressione”. L’appello chiede a Francesco “fraternamente” che “inviti il governo della Spagna, pubblicamente o per vie diplomatiche, a rivedere la sua opposizione al referendum, chiesto dall’80% della popolazione, e a cessare le sue azioni repressive”.
Nel frattempo, l’Europa rimane a guardare Barcellona, allo stesso modo in cui Don Chisciotte e Sancio dal Baluardo del Mezzogiorno, spinsero lo sguardo da ogni parte e videro il mare, che non avevano mai visto prima, e parve loro larghissimo e lungo. Come la strada per l’indipendenza catalana.
Salvatore De Blasio
photo by Luis Miguel Bugallo Sánchez (Lmbuga) (Own work) [CC BY-SA 3.0], via Wikimedia Commons