Strage di Volpiano. Le motivazioni con cui la Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Torino sulla faida di ‘ndrangheta

Roma. Il palazzo di Giustizia, sede della Corte di Cassazione

Roma. Il palazzo di Giustizia, sede della Corte di Cassazione

Roma. Una sentenza «manifestamente illogica e intrinsecamente contraddittoria», sia per quanto riguarda le condanne all’ergastolo di Natale Trimboli e Rosario Marando, sia per quanto riguarda le assoluzioni di Giuseppe Santo Aligi, Gaetano Napoli e Antonio Spagnolo. Scrive questo la Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza con la quale ha annullato con rinvio ad una nuova sezione la decisione della Corte d’Assise d’appello di Torino sulla strage di Volpiano, consumata il primo giugno 1997 e nella quale persero la vita Antonio Stefanelli, 55 anni, il nipote Antonino Stefanelli, 36 anni, e il loro guardaspalle Francesco Mancuso, rivali del clan Marando. Ventuno anni dopo, senza che i corpi siano mai stati ritrovati, è tutto da rifare: per la Suprema Corte, l’intero impianto argomentativo viene travolto dalla motivazione della sentenza pronunciata a dicembre 2015. I giudici d’appello, secondo la Cassazione, hanno sostanzialmente omesso di valutare preliminarmente la credibilità soggettiva e complessiva dei collaboratori di giustizia: Rocco Marando, Maria Stefanelli e Rocco Varacalli, nonché le dichiarazioni di Rosario Marando, che aveva dichiarato di sapere dove si trovano i corpi.
La Cassazione si concentra in particolare sulla verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni del pentito Rocco Marando, sollecitata dalle difese nei motivi d’appello, «le cui propalazioni accusatorie, essenzialmente de relato, rappresentano, nel presente processo, l’elemento di prova fondamentale nella ricostruzione delle responsabilità concorsuali ascritte agli imputati Trimboli Natale, Marando Rosario, Napoli Gaetano e Aligi Santo Giuseppe».
I giudici avrebbero dunque dovuto spiegare, secondo gli Ermellini, per quale motivo quella parte della narrazione che è stata smentita «non è idonea a inficiare il giudizio positivo sulla credibilità soggettiva del dichiarante, che costituisce il primo e fondamentale momento valutativo della affidabilità della fonte di prova». Nella sentenza d’appello, invece, i giudici si erano limitati a basare l’attendibilità di Marando su una precedente pronuncia della Cassazione, che lo aveva considerato credibile in un processo riguardante l’accusa di associazione mafiosa e altri reati fine, «senza confrontarsi in modo specifico e argomentato con la credibilità dell’accusa, rivolta dal Marando agli imputati, di partecipazione all’omicidio del Mancuso e degli Stefanelli».
Verificare quelle dichiarazioni risultava ancora più urgente alla luce della decisione presa dalla stessa Suprema Corte in sede cautelare, quando l’ordinanza nei confronti di Trimboli, Marando e Aligi era stata annullata censurando proprio «i vizi e le lacune motivazionali ravvisabili nel giudizio di credibilità soggettiva e di attendibilità intrinseca della chiamata in reità operata da Marando. 
Anche per quanto riguarda le dichiarazioni di Rosario Marando la Cassazione ha rilevato una «lacuna motivazionale», non essendo stata analizzata la natura dei rapporti tra i due fratelli, il contesto temporale e la genesi delle dichiarazioni accusatorie, che trovano la loro fonte diretta, secondo quanto affermato dal fratello Rocco, proprio nelle confidenze ricevute da Rosario. Stessa lacuna sulla credibilità pentito, Rocco Varacalli, che ha invece riferito sull’omicidio di Roberto Romeo, consumatosi poco dopo la strage.
Quegli omicidi, risultato della più cruenta faida del torinese, rimangono intanto ancora un mistero irrisolto. Rosario Marando nel 2013 aveva indicato ai giudici dove scavare per recuperare quei corpi. La mappa fu disegnata su un foglio consegnato alla corte, che spedì lì uomini e mezzi per rintracciare il cimitero della ‘ndrangheta. Ma dei cadaveri non c’era traccia. Marando, nonostante tutto, ribadì di sapere dove si trovano i corpi, trucidati per un regolamento di conti tra famiglie di ‘ndrangheta. «Loro – ha affermato – sono lì. Li ho sepolti io». Nel foglietto consegnato in aula, Marando aveva appuntato tutto ciò che ricordava di quei boschi trasformati in cimitero. «Quando sono arrivato i corpi erano già lì – aveva raccontato – siamo andati una decina di metri più avanti e abbiamo scavato una buca alta più o meno come me e li abbiamo buttati dentro. Poi gli ho scaricato sopra due sacchi di calce, gli ho messo sopra una coperta e il giubbotto di pelle di Mancuso e abbiamo ricoperto tutto con della terra».
La versione raccontata da Marando avrebbe cambiato le carte in tavola, scagionando il fratello Domenico dall’accusa di omicidio e lasciando su di sé solo l’accusa di occultamento di cadavere, ormai prescritta. Il mandante di quell’efferato delitto, infatti, sarebbe l’altro fratello, Pasquale Marando (anche lui scomparso e mai ritrovato), che avrebbe meditato vendetta dopo l’omicidio di un altro fratello, Francesco (sposato con Maria Stefanelli, la sorella di Antonio), ucciso a Torino nel 1996, il cui corpo venne trovato, successivamente, carbonizzato nei boschi di Condove. Pasquale avrebbe contattato gli Stefanelli e Mancuso, che riteneva responsabili dell’omicidio, tendendo loro una trappola: gli propose una finta alleanza contro una terza famiglia, salvo poi trucidarli appena scesi dall’auto nel luogo prestabilito. A quel punto sarebbe entrato in scena Rosario Marando.
Qualche tempo dopo, però, fu una lettera anonima a indicare un’altra pista: i corpi, si leggeva, sarebbero stati seppelliti nella periferia di Leini e non nelle Vaude di Volpiano, luogo indicato, invece, da Marando, che, aggiungeva, non si sarebbe occupato della sepoltura dei cadaveri: a farlo sarebbe stata un’altra persona, nei confronti della quale l’autore della lettera dice di essere creditore. Ma nemmeno in quel caso le ricerche diedero esito positivo: lupara bianca era e lupara bianca è rimasta.

Simona Musco

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