Reggio Calabria. «Bastardi, pezzi di merda, vi metto i coglioni in bocca, infami!». Queste parole, proferite verso i Carabinieri che lo hanno arrestato in flagranza per detenzione di una santabarbara, non integrano il reato di minaccia a pubblico ufficiale, e nemmeno di oltraggio a pubblico ufficiale. Lo ha deciso la Corte di Cassazione all’udienza del 7 novembre 2017.
L’arresto a Melito Porto Salvo
Il 22 maggio 2014, alle ore 11.30 circa, i Carabinieri della Stazione di Reggio Calabria Rione Modena, diretta dal maresciallo masups Andrea Levi, coadiuvati dallo Squadrone eliportato “Cacciatori di Calabria”, bussarono alla porta di casa, in Melito Porto Salvo, di Bruno Iaria, incensurato, disoccupato classe 77. I militari dell’Arma eseguirono una perquisizione finalizzata alla ricerca di armi nella dimora di Iaria, cognato di un soggetto detenuto per essere un elemento di spicco della “cosca Serraino”. Nell’abitazione di Iaria non venne rinvenuto nulla, ma in un fabbricato che egli stava realizzando venne notata la presenza di tubi in PVC trasformati in contenitori, di contenitori di sale, di buste di plastica per il sottovuoto, di contenitori plastici e di unguento per la pulizia di armi: materiale che insospettì i Carabinieri perché egli non aveva titolo di polizia per il possesso di armi. La perquisizione venne estesa a un appezzamento di terreno contiguo al fabbricato, dal quale si accedeva agevolmente anche dalle stalle di Iaria, il quale inizialmente ammise che quel terreno era nella disponibilità della sua famiglia. I Carabinieri notarono che vi era terra rimossa di recente ed effettuato lo scavo rinvennero contenitori plastici, tubi in PVC e sacchi di plastica identici a quelli trovati nel fabbricato di Iaria, ma questi ultimi contenevano una gran quantità di armi sia da guerra che comuni alcune delle quali con matricola abrasa o punzonata. (leggi qui)
La santabarbara rinvenuta dai Carabinieri
La “santabarbara” rinvenuta e sequestrata era costituita da due mitragliette tipo “Uzi”, due pistole tipo revolver, tre pistole semiautomatiche, un fucile a pompa, una carabina con ottica di precisione, due fucili semiautomatici, due fucili tipo doppietta modificati mediante taglio delle canne, un ingente quantitativo di cartucce e 10 panetti di esplosivo tipo “tritolo” provvisti di relativo detonatore già inserito, del peso di grammi 200 ciascuno.
La reazione contro i Carabinieri
Fu al momento della ricerche nel terreno che Iaria prese ad inveire contro i militari dell’Arma e a proferire le parole che gli costarono (oltre a quelle per reati in materia di armi) anche l’accusa di minacce a pubblico ufficiale.
La sentenza di primo grado
Con sentenza in data 24 settembre 2015 il GUP del Tribunale di Reggio Calabria, in esito a rito abbreviato, ha condannato Bruno Iaria alla pena di 8 anni di reclusione e 18 mila euro di multa per detenzione illecita di armi clandestine, di armi da guerra, di parti di arma, di munizioni, nonché per ricettazione e minaccia a pubblico ufficiale.
La sentenza di appello
La Corte d’appello di Reggio Calabria il 7 luglio 2016 in riforma della decisione di primo grado ha rideterminato la pena in 5 anni e 4 mesi di reclusione e 10 mila euro di multa.
La decisione della Cassazione sulle parole proferite verso i Carabinieri
L’avere proferito quelle parole verso i Carabinieri operanti non integra – secondo la difesa – il reato di minaccia a pubblico ufficiale. Sul punto la Cassazione – richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte – osserva che “non integra il reato di minaccia a pubblico ufficiale la reazione genericamente minatoria del privato, mera espressione di sentimenti ostili non accompagnati dalla specifica prospettazione di un danno ingiusto, che non sia sufficientemente concreta da risultare idonea a turbare il pubblico ufficiale nell’assolvimento dei suoi compiti istituzionali”.
In particolare, prosegue la Cassazione affrontando la fattispecie concreta “la reazione risentita ed esagitata del ricorrente non contiene espressioni di vera e propria minaccia, e cioè di una prospettazione concreta di un male, bensì esprime un disprezzo che non aveva valenza atta a costringere il pubblico ufficiale a fare un atto contrario ai propri doveri o ad omettere un atto dell’ufficio, ma era soltanto espressione di volgarità”.
Peraltro la stessa Cassazione esclude che possa integrarsi anche il reato di oltraggio a pubblico ufficiale: “il delitto di oltraggio è stato nuovamente introdotto nell’ordinamento a seguito della legge n. 94 del 2009, che ha però delineato una nuova figura di illecito, caratterizzato da ulteriori requisiti oggettivi, in precedenza non richiesti (presenza di più persone; realizzazione in luogo pubblico o aperto al pubblico; scaturigine da atti dell’ufficio): ciò che viene riprovato dall’ordinamento non è la mera lesione in sé dell’onore e della reputazione del pubblico ufficiale, quanto quei comportamenti ritenuti pregiudizievoli del bene protetto a condizione della diffusione della percezione dell’offesa, del collegamento temporale e finalistico con l’esercizio della potestà pubblica e della possibile interferenza perturbatrice col suo espletamento”.
“Non risulta in sentenza – prosegue la Cassazione – un accertamento di fatto puntuale sui nuovi elementi specializzanti, per cui, in relazione alla menzionata imputazione, l’imputato deve essere assolto perché il fatto non sussiste e la sentenza impugnata, su questo specifico punto, deve essere annullata senza rinvio, con eliminazione dalla pena complessiva della parte di sanzione attribuita al capo H), e cioè mesi sei di reclusione ridotti, per la scelta del rito, a mesi quattro di reclusione”.
La sentenza della Cassazione
La prima sezione penale della Corte di Cassazione (presidente Mariastefania Di Tomassi, relatore Antonio Minchella) – procuratore generale Luca Tampieri – accogliendo alcuni dei motivi di ricorso degli avvocati Giacomo Iaria e Marino Maurizio Punturieri, ha annullato senza rinvio – limitatamente al reato di minaccia a pubblico ufficiale e alla duplicazione di alcuni reati in materia di armi e quindi ai ripetuti aumenti per continuazione nonché alla continuazione del reato di ricettazione – la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria e per effetto dell’annullamento della Cassazione, la pena finale è stata rideterminata in complessivi 3 anni e 8 mesi di reclusione e 7.668 euro di multa.
Fabio Papalia