Processo Saggezza. Le motivazioni della Corte di appello: “Non è massoneria, la Corona è struttura di ‘ndrangheta”

Corte di Appello Reggio Calabria

Corte di Appello Reggio Calabria

Reggio Calabria. Non si tratta di una struttura di massoneria, così come alcuni imputati hanno provato a far credere: la “Corona” individuata con l’indagine “Saggezza” è una struttura tipica di ‘ndrangheta, con tutte le caratteristiche che le appartengono. Scrivono questo i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria nelle motivazioni della sentenza con la quale lo scorso 2 ottobre hanno confermato la tesi della Dda sull’esistenza di un nuovo organismo che racchiude i locali di mafia a ridosso di Locri, organismo del quale l’anziano Vincenzo Melia era padre e padrone sin dal 1962. Una struttura che il tribunale di primo grado aveva già riconosciuto, collocando al suo interno e al fianco di Melia, nel cosiddetto “Consiglio”, altri personaggi capaci di essere «portatori di un certo potere nei rispettivi territori, potere che Melia si aspettava essi fossero in grado di esercitare compiutamente in conformità degli scopi della “Corona”». Ma mentre per i giudici del tribunale di Locri non era chiaro se ci si trovasse o meno davanti ad un’articolazione deviata della massoneria, i giudici d’appello sembrano spazzare via ogni dubbio, chiarendo la natura ‘ndranghetistica del legame che univa i consiglieri della “Corona”.
Tra questi la pena maggiore è stata inflitta a Nicola Romano, condannato 17 anni e 8 mesi di reclusione per associazione mafiosa e ritenuto dagli inquirenti il capo del “locale” di ‘ndrangheta di Antonimina. Assieme a lui sono stati condannati Giuseppe Raso (14 anni), Massimo Siciliano (10 anni e otto mesi), Rosario Barbaro di Platì e Nicola Nesci, di Ciminà, entrambi a 15 anni. Inflitti, inoltre, 14 anni di carcere all’imprenditore edile Bruno Varacalli e 10 anni a Rocco Polifroni, Antonio Spagnolo e all’ex vicesindaco di Ardore Bruno Bova.
La Corte ha evidenziato «la piena configurazione del delitto associativo», provata dal riferimento all’apertura di nuovi “locali”, dal conferimento tipico di “cariche” della ‘ndrangheta, di cui si parla espressamente nelle conversazioni intercettate, dagli acclarati rapporti di alcuni degli imputati con Giuseppe Commisso alias “il Mastro”, dominus dell’omonima cosca di Siderno, nonché dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Elementi che portano ad un’unica conclusione: la solidità dell’accusa di 416 bis, non inficiabile dalla tesi delle difese, che hanno descritto Melia come una persona «farneticante», che millantava la propria posizione. Una posizione chiarissima, invece, per i giudici, stando al tenore dei discorsi e dalle interlocuzioni con gli altri membri della “Corona”, veri e propri “manuali” dell’onorata società.
«Neanche Dio lo può fare. Solo io posso», diceva il capo Melia, morto prima di arrivare alla sentenza. Una frase che, secondo i giudici, racchiude il valore di una dote che gli conferiva un potere enorme, superiore addirittura a quello di Dio. Ma è Romano il principale obiettivo dell’indagine “Saggezza” e quasi tutto quello che emerge dal processo è utile «per sostenere che egli è inserito nell’organizzazione con un ruolo apicale e che, in particolare, egli è il responsabile per gli affari di ‘ndrangheta nel territorio di Antonimina». Aveva rapporti assidui con il capo, Vincenzo Melia, che parlando con lui rimarcava di avergli conferito la carica di consigliere della Corona; aveva rapporti con “il mastro”, Giuseppe Commisso, del quale conosceva certamente il ruolo di vertice, tanto da rivolgersi a lui per i lavori sulla statale 106; era in grado di «condizionare l’esecuzione dei lavori pubblici nel territorio di Antonimina ed era partecipe del ritenuto accordo spartitorio»; insieme a Giuseppe Raso aveva un ruolo all’interno del cartello che controllava il taglio boschivo, stabilendo arbitrariamente chi poteva svolgere l’attività sul territorio. Ed era sempre lui il soggetto individuato da Giuseppe Varacalli come persona in grado di «aiutare Bova Bruno a ottenere i voti del Comune di Antonimina al fine dell’elezione a presidente della Comunità montana».
Un’impostazione che la Corte d’appello presieduta da Adriana Costabile mutua dai giudici di primo grado, pur assolvendo Romano dall’accusa di illecita concorrenza, «in quanto numerosi sono gli altri elementi a sostegno dell’ipotesi accusatoria». Romano, aggiungono i giudici, «è un vero e proprio punto di riferimento nel sodalizio, cui ci si rivolge per dirimere le questioni con le modalità tipiche dell’associazione mafiosa».

All’apertura del processo d’appello era stato lui a lanciare l’ipotesi che quella di cui faceva parte fosse un’associazione di liberi muratori estranea alla criminalità. La “Corona” – aveva detto in aula – non è nata con assetto ‘ndranghetistico, bensì come loggia massonica, un club. Parole che aveva pronunciate nel corso di una dichiarazione spontanea, le uniche prima di trincerarsi dietro la facoltà di non rispondere, sostenendo di essere finito sotto usura da parte di Melia, che avrebbe preteso da Romano una sorta di “tassa d’iscrizione” al club massonico, comunque non riconosciuto. Ma quella tesi non ha convinto i giudici: quella di Antonimina era ‘ndrangheta, la ‘ndrangheta della “Corona”.

Simona Musco

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