Reggio Calabria. Altro che taxi del mare. Le Ong «sono le “autombulanze del mare”, legittime e deputate a salvare persone». Ad affermarlo è l’avvocato Rosa Emanuela Lo Faro, che ha assistito i comandanti della nave “Open Arms”, nave dell’organizzazione non governativa spagnola Proactiva Open Arms sbarcata a Pozzallo e accusata dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Un’inchiesta, quella, archiviata dal gip di Catania, che ha così smentito l’esistenza di un’associazione a delinquere. E martedì si è aggiunto un altro tassello: anche le accuse contro la “Golfo azzurro”, sempre in forza alla Opena Arms, sono cadute, per l’assenza di condotte criminali. Procura e gip di Palermo certificano anzi l’assenza di elementi tali «da dimostrare in concreto l’esistenza di alcun vincolo associativo» addebitabile alla Ong “Sea Watch” o un loro legame con i trafficanti libici, nemmeno individuati. La scelta di far sbarcare i 220 migranti soccorsi a Lampedusa il 15 maggio 2017, anzi, rappresenta «una corretta gestione delle operazioni di salvataggio».
Le indagini, afferma la stessa procura di Palermo, hanno smentito «del tutto l’assunto investigativo», ovvero di una qualche forma di condotta penalmente rilevante, avendo la Ong soccorso migranti in stato di difficoltà e, quindi, seguendo alla lettera «una norma giuridica internazionale». L’Italia, anzi, aveva il dovere di soccorrere quelle persone: «è un obbligo umanitario di tutti gli Stati costieri consentire alle nave in difficoltà di cercare riparo nelle loro acque e concedere l’asilo o, almeno, emanare un provvedimento di protezione temporaneo alle persone a bordo richiedenti asilo». E in difficoltà, spiegano i magistrati di Palermo, non significa solo mare in tempesta, ma anche «situazioni di sovraffollamento dei barconi o di difficoltà nella navigazione, causate ad esempio da cause tecniche», ma anche la presenza di donne e bambini, che quindi «impongono l’attivazione di tutte le misure necessarie per quello che attiene il salvataggio delle persone».
La procura si spinge oltre, citando vari regolamenti internazionali: gli Stati, afferma, dovrebbero sempre facilitare lo sbarco, in conformità «con i principi di solidarietà internazionale e di ripartizione degli oneri nella concessione dell’opportunità di reinsediamento». Ma il principio fondamentale, evidenziato dall’atto di archiviazione, è il richiamo all’articolo 54 del codice penale: «non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno». L’attività della Sea Watch risulta dunque «avere copertura normativa» da questo articolo.
I dubbi riguardavano anche il mancato raggiungimento di porti più vicini. Ma, spiegano i magistrati, l’intervento originale della Guardia costiera italiana da un lato e la mancata cooperazione dello Stato di Malta nella gestione degli eventi – proprio come accaduto nel caso “Aquarius” – hanno fatto sì che il porto più vicino fosse individuabile proprio in Italia. «Non deve stupire – si legge dunque – che la “Sea Watch” abbia preferito effettuare lo sbarco verso le coste italiane: ciò anzi rappresenta conseguenza logica (…) e una corretta gestione delle operazioni di salvataggio».
Un accenno viene fatto infine anche alla Libia, per la quale manca – citando il provvedimento del gip di Ragusa – «la prova della sussistenza di place of safety (luoghi di sicurezza, ndr)» in grado «di accogliere i migranti soccorsi nelle acque Sar di competenza, nel rispetto dei loro diritti fondamentali». Difficile, dunque, pensare che rimandare indietro i migranti sia una soluzione legittima. Anche perché, allo stato, non ci sono acque Sar libiche ufficialmente riconosciute «e tale circostanza, evidentemente, acquista decisiva rilevanza circa la gestione delle operazioni di salvataggio».
Simona Musco