Reggio Calabria. Un mercato clandestino di armi da fuoco, “funzionale” alle cosche di ‘ndrangheta. È questa la tesi della Dda di Reggio Calabria, che ha fatto finire nella rete armieri e mediatori. Una tesi che il gip di Reggio Calabria boccia parzialmente, riconoscendo una fitta rete di rapporti destinata al rifornimento sistematico di armi, alla loro detenzione, al porto e alla rivendita a terzi, escludendo, però, l’aggravante mafiosa in merito al delitto associativo, non deducibile, secondo il giudice, dalla sola vicinanza di alcuni degli indagati alla cosca Commisso di Siderno e alla cosca Cataldo di Locri. «Se, invero, è indubitabile che l’illecita attività posta in essere dall’associazione avviene in un periodo storico in cui sono attive sul territorio di Siderno le cosche Commisso e Cataldo impegnate in cruente faide ed è di certo verosimile che la destinazione finale delle armi possa essere stata quella di essere messe a disposizione delle predette cosche – scrive il giudice Natina Pratticò – tuttavia, l’ipotesi investigativa plausibile non è suffragata da confortanti elementi di riscontro». Non si tratta affatto di un’ipotesi peregrina, dunque, ma serve qualche elemento in più, secondo il giudice per le indagini preliminari. Difficile, infatti, immaginare che in un territorio sfigurato dalle faide, dove a dettare legge sono i clan, qualcuno possa permettersi il lusso di smerciare armi invadendo il campo delle famiglie egemoni, senza nemmeno chiedere il permesso. Anche alla luce della micidialità di quelle armi, utili «per fare male a qualcuno in modo brutto», spiega Domenico Zucco, uno degli indagati in una intercettazione, «non è che servono per andare a caccia». Una tesi che, evidentemente, l’antimafia approfondirà colmando gli omissis disseminati nell’ordinanza di custodia cautelare.
Per la Dda, l’indizio fondamentale a sostegno di tale quadro accusatorio risiede nella personalità di alcuni degli indagati, i Filippone e gli Zucco. «Bruno e Francesco Filippone fanno parte della famiglia mafiosa dei Commisso e gli stessi sono intranei all’associazione a delinquere avente ad oggetto i reati in materia di armi. E, tuttavia – scrive ancora il giudice per le indagini preliminari – a carico dei predetti non è stata ritenuta la sussistenza di un grave quadro indiziario in ordine al reato mafioso di stampo associativo ed anzi occorre tenere conto che nei loro confronti è intervenuta sentenza di assoluzione definitiva per l’appartenenza al gruppo mafioso dei Commisso». Si interrompe qui il filo che dovrebbe legare l’associazione a delinquere al centro delle indagini con la cosca mafiosa dei Commisso, un filo che i magistrati sono intenzionati a ritessere. Un discorso che il giudice ripete anche per i collegamenti rilevati dall’antimafia dello Stretto con la cosca Cataldo, «cui appartengono gli indagati Zucco Domenico e Giuseppe classe 61». Il fatto che Arilli «rifornisca i due in un’unica occasione di un fucile ed una pistola (sia pure di rilevante offensività) non può far concludere con automatica consequenzialità che l’associazione abbia sistematicamente operato al fine di avvantaggiare la cosca di appartenenza degli Zucco, nei cui confronti, per altro, proprio in ragione dell’unico acquisto, non è stata ritenuta l’appartenenza al sodalizio semplice», si legge ancora nelle carte dell’inchiesta.
Il mercato delle armi
A gestire lo smercio di pistole e fucili era un gruppo ben preciso, rifornito di ogni tipo di ferro e con un tariffario imparato a memoria per la vendita al dettaglio. Un mercato che aveva le sue ramificazioni a Siderno, nella piana di Gioia Tauro, nonché a Platì, San Luca, Valle D’Aosta e Liguria e che trovava il proprio nucleo direttivo in Antonio Lizzi, Giuseppe Arilli e Bruno Filippone. Gli investigatori li hanno ascoltati, pedinati, fotografati e fermati ai posti di blocco organizzati nei minimi dettagli per beccarli con le mani nel sacco. Erano loro, scrivono i magistrati antimafia, a dirigere, gestire e coordinare l’attività degli altri associati. «Veramente impressionante il numero di armi e munizioni di cui questi tre indagati sono riusciti a rifornirsi in maniera stabile per venire incontro a qualsiasi tipo di esigenza venisse loro rappresentata e, quindi, incessantemente destinate alla vendita clandestina», conferma il gip, che disegna nelle oltre mille pagine dell’ordinanza di custodia cautelare l’organigramma dell’associazione. Vicino alle tre “teste” del mercato c’erano i fornitori stabili, Maurizio Napoli e Giorgio Timpano. E poi i collaboratori, i corrieri, gli intermediari tra venditori e terze persone non identificate, ovvero Roberto Pianta, Domenico Filippone, Samuel William Alessandro Zimbalatti, Rocco Bennici e Vincenzo Tassone.
Tra tutti loro, afferma il gip, è rintracciabile un accordo «continuativo destinato a permanere anche dopo la consumazione di ciascun delitto programmato, che è il tratto distintivo dell’associazione a delinquere rispetto al concorso di persone nel reato». Sono le intercettazioni, estremamente attendibili, sostiene il giudice, a testimoniare l’intensità del legame esistente tra gli indagati e «l’unione dei medesimi per il raggiungimento di uno scopo comune duraturo».
Il campionario delle armi era vastissimo: Thompson calibro 45, Kalashnikov, 44 magnum, calibro 38, calibro 9 luger, calibro 7,62 x 39, calibro 7, Walter Pkk, marca Taurus, calibro 357, fucile calibro 12, calibro 9 x 21, calibro 9 x 19, calibro 22, marca Gamba, fucili super 90, calibro 7,65, doppietta calibro 12, fucile a pompa, fucile sovrapposto, Smith & Wesson 646, marca Browning, Walter Pkk calibro 765, mitraglietta calibro 28 magnum e altro ancora. Armi rubate, provenienti da Malta e descritte nei minimi particolari, per soddisfare le esigenze di chiunque: con manico lungo o corto, micidiali, semiautomatiche, nuove o vecchiarelle, bifilari, con canna lunga, talvolta disponibili in 25 o 8 pezzi , munizionamento ed accessori di vario tipo come strozzatori, caricatori e altro. Insomma, «di tutto ciò che non può fare dubitare seriamente sull’oggetto illecito di cui trattasi».
E basta scorrere le intercettazioni per comprendere il guadagno dietro la vendita di ogni singola arma. Il prezzo della Beretta, ad esempio, nel tariffario di Lizzi era di 1500 euro. L’Ak 47, il potente Kalashnikov, costava invece 2400 euro, più un euro per ogni colpo 7.62 x 39. «Lo so che costano care – si sente dire a Domenico Zucco – Non li trovi facilmente… sono come l’oro… se li stanno tenendo come l’oro perché sono rari». Le armi più ricercate erano le 7.65, le 9×21, la 7 parabellum, la 38 special, la 38 a canna lunga e a canna corta. «Tutte pistole semplici», spiega Zucco ad Arilli. Come doppiette, sovrapposti, automatici: «questi si prendono… ora sai cosa stanno andando pari pari Pe? Le doppiette… sai come le vogliono queste cazzo di doppiette». E lui, Zucco, possedeva addirittura una micidiale Thompson 45, nonché una Beretta calibro 9 Luger con manici di legno, probabilmente rubata in passato a qualche militare dell’Arma.
Simona Musco