Reggio Calabria. Il linguaggio e la comunicazione in generale sono stati tra gli elementi che verosimilmente hanno favorito lo sviluppo dell’essere umano, fin dalle sue origini. Il linguaggio è uno degli elementi tipizzanti di un gruppo, probabilmente ne definisce l’appartenenza, ed è partendo da questo presupposto che è stato organizzato, lo scorso sabato pomeriggio presso il Palazzo Corrado Alvaro (ex Palazzo della Provincia di Reggio di Calabria), il convegno di studio che aveva ad oggetto “Linguaggio ed Antropologia delle Mafie”.
Un incontro studiato con un taglio trasversale che ha visto il contributo di relatori d’eccezione – Girolamo Lo Verso, Antonino Giorgi, Filippo Condemi e Antonio Borrello, con interventi di Filippo Sorgonà e Tiberio Bentivoglio, moderatore Paolo Praticò – che, partendo da un approccio scientifico, hanno cercato di illustrare alcuni elementi che possano essere utili a delineare un percorso che sia di ausilio alla lotta convenzionale alla ‘Ndrangheta.
Un’analisi chiara ed essenziale che ha illustrato in modo sintetico la storia e la caratterizzazione di questa forma sociale che contamina la società civile e che trova le sue radici in un passato dimenticato e la sua forza nella cellula primigenia della società: la famiglia.
Un’educazione “nientizzante” che annulla l’individualità sia dei soggetti che sono direttamente collegati alle famiglie – per legami di sangue – ma anche di coloro che vi si imbattono e rimangono prigionieri di dinamiche che li “robottizzano” da un lato e che li privano del potere decisionale e li sottomettono al verbo dall’altro.
Un’educazione alla “nientificazione” che inizia già dal concepimento e che si respira ad ogni angolo all’interno di quei paesi laddove il capo bastone tutto vede e tutto decide. Un “gioco” di potere che trae la sua forza dalla paura, dai biechi ricatti psicologici, dalla fatua sicurezza dell’appartenenza ad un gruppo e progressivamente svuota il singolo individuo del suo “contenuto” e lo condanna ad una vita di dipendenza e squallida obbedienza. Una costruzione socio-psicologica progressiva, ossessiva e maniacale che deve necessariamente mantenere il clima di tensione che garantisca la supremazia del capofamiglia sul gruppo ed il linguaggio tesse le trame di questa dipendenza: il codice verbale del male!
Uno scenario lontano anni luce dai fasti delle famose produzioni televisive a tema: la vita reale di coloro che vegetano nell’ambito e a ridosso del perimetro delle famiglie è un’esistenza di assoluta dipendenza da un capobranco fallito, fragile ed insicuro; un capo che, in realtà, non ha in primis le caratteristiche genetiche ed antropologiche per la dominanza, tanto che, contravvenendo infatti a tutte le teorie evoluzionistiche, non ha assolutamente a cuore la protezione e lo sviluppo della comunità che comanda, ma che, al contrario, come un inutile parassita, la svuota progressivamente della serenità e della voglia di crescita a cui auspicherebbe, invece, un vero Leader.
Monica Bolignano
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