Se le Primarie diventano Referendum

Falcomatà schiva il "fuoco amico" e vince la battaglia

Giuseppe Falcomatà

Giuseppe Falcomatà

Reggio Calabria. Erano e restano Primarie, anche se qualcuno potrebbe averle scambiate per un referendum sul Pd reggino e su Giuseppe Falcomatà, ormai in piena corsa per una riconferma alle prossime elezioni comunali. A conti fatti, il sindaco ha vinto non solo sostenendo la mozione del nuovo segretario Nicola Zingaretti, ma soprattutto perché lo ha fatto contro un vero e proprio “esercito di alleati”.

Il classico dei classici: fuoco amico per vedere l’effetto che fa. Così, il primo cittadino, supportato dal solo consigliere regionale Seby Romeo, se l’è dovuta vedere, in ordine, con: Nicola Irto, presidente del Consiglio regionale; Demetrio Battaglia, ex parlamentare e dominus di Confartigianato; Luigi Meduri, già deputato e grande saggio della fu Margherita e poi del Pd a Reggio e in Calabria, profeta della politica quale “arte dell’impossibile”; Domenico “Mimmo” Battaglia, consigliere regionale in carica e candidato alle primarie come alter ego proprio dello stesso Falcomatà; Giuseppe “Pinone” Morabito, ultimo presidente “rosso” della vecchia Provincia oggi Città Metropolitana; Giuseppe Marino, plenipotenziario assessore comunale con alcune fra le più pesanti deleghe proprio nella giunta Falcomatà. Dietro di loro, nel sottobosco dei seggi, si è mosso quel folto gruppo di galoppini, arditi, sabotatori e incursori “arruolati” nella guerra silenziosa e fredda come ai tempi della vecchia, gloriosa, Democrazia Cristiana.

Falcomatà, dunque, è riuscito a contenere e superare quanti stavano seduti sulla riva del fiume in attesa che ne passasse il cadavere. L’inquilino di Palazzo San Giorgio si è confermato uomo forte del Pd in un momento particolarmente delicato per il partito e per la città alle prese con un vero e proprio piano di ricostruzione. A parlare sono i voti, ma anche la gente che, in gran numero, si è recata alle urne di domenica (già di per sé un fatto per nulla scontato). Zingaretti vince praticamente ovunque e la lista di “Piazza Grande” si conferma bastione difficile da espugnare. Lo sforzo prodotto dai maggiorenti del partito, complessivamente concentrato su Maurizio Martina, ha prodotto il 33% dei consensi, poco più di tre elettori su dieci. E quelli restano.

Ma per comprendere fino in fondo il risultato elettorale, in alcuni casi, bisogna scavare, spingersi oltre l’analisi secca del voto quasi arrivando a farne una Tac “senza contrasto”. La scheda presentava una sola lista a sostegno di Martina ed un’altra appannaggio dell’outisider Roberto Giachetti. Il solo neo segretario poteva contare sull’appoggio di due formazioni (“Piazza Grande” e “Calabria per Zingaretti”), moltiplicando, di fatto, le possibilità di preferenze e, automaticamente, la difficoltà per l’elettore. Così, in molti hanno sbarrato i due simboli, altri ancora il solo nome del candidato, portando le preferenze individuali all’11% da sommare al 37% di Piazza Grande ed al 6% di “Calabria per Zingaretti”. In tutto il 54% dei 6.800 votanti. In soldoni, la mozione di Martina viene doppiata con 21 punti di differenza.

Poi c’è quel 13% di preferenze per Giachetti che, territorialmente, è un’espressione molto vicina al sentiment per Giuseppe Falcomatà, un’operazione elettorale volta a “disgregare” il voto complessivo e diretta dal capogruppo Pd al Comune, Antonino Castorina, praticamente uno degli uomini più vicini al primo cittadino fra i banchi di Palazzo San Giorgio.

Insomma, il primo esame – quello sulla conta interna – appare ampiamente superato. Adesso, il Pd può guardare con più convinzione ai prossimi appuntamenti elettorali. Ed è lì che i numeri conteranno sul serio. La battaglia decisiva – quella da cui dipende la guerra – si sposterà su un campo in cui non si faranno prigionieri e chi ha avuto l’onere e l’onore di guidare il partito come classe dirigente non potrà davvero concedersi distrazioni.

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