Reggio Calabria – “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può quindi affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”.
È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Reggio Calabria nel processo “‘Ndrangheta stragista” nel quale, su richiesta del procuratore capo Giovanni Bombardieri e del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, lo scorso 24 luglio sono stati condannati all’ergastolo il boss siciliano Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, considerato dalla Dda il referente della cosca Piromalli. I due imputati sono ritenuti mandanti degli attentati ai carabinieri Antonio Fava e Vincenzo Garofalo, trucidati il 18 gennaio 1994 sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, nei pressi dello svincolo di Scilla.
“Si può affermare con certezza – scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza riguardo alla strategia stragista di Cosa Nostra e il coinvolgimento della ‘Ndrangheta – che su input di Totò Riina, capo cosca dei corleonesi di Cosa Nostra, si decise di avviare tra il 1991 e il 1992 una strategia stragista al fine di sferrare un attacco contro lo Stato, pur sempre di natura mafiosa, che sarebbe poi dovuto culminare con la strage dei Carabinieri allo stadio Olimpico di Roma all’inizio del 1994”.
“Il progetto di Riina nel 1992 – si legge ancora nelle motivazioni – era quello di ‘fare la guerra per poi fare la pace’: l’obiettivo, dopo l’eliminazione di Lima, Falcone e Borsellino, era attuare un piano di destabilizzazione contro lo Stato per ottenere in primis benefici normativi”.
“Le stragi, rivendicate con l’utilizzo della sigla Falange Armata, avevano tutte un comune denominatore – spiegano i giudici della Corte d’assise – e cioè i depistaggi, posti in essere al fine di non consentire l’individuazione dei veri responsabili e creare un diffuso terrore nella popolazione per alzare il livello di ricatto verso gli interlocutori politici vecchi e nuovi”.