La vita e le opere di Cesare Lombroso al centro dell’incontro dell’Anassilaos

Cesare Lombroso
Cesare Lombroso

Reggio Calabria. Cesare Lombroso e il suo libro “In Calabria 1862/1897”, nel centenario della morte dello studioso, saranno al centro dell’incontro promosso dall’Associazione Culturale Anassilaos che si terrà domani alle ore 18,00 presso la Sala di San Giorgio al Corso con l’intervento del Prof. Antonino Monorchio e dello stesso presidente del Sodalizio Stefano Iorfida. Il 19 ottobre del 1909, infatti, moriva a Torino Cesare Lombroso, medico, scienziato, fondatore dell’antropologia criminale, il cui nome e le cui ricerche, frutto del tempo in cui egli visse, influenzato dal positivismo e dalle teorie darwiniane, ancora oggi suscitano reazioni contrastanti per taluni aspetti, considerati razzistici e antimeridionali (ma a torto) e per le influenze esercitate su movimenti, quali il nazismo, che da Lombroso, secondo lo storico Mosse, avrebbe derivato teorie che decenni più tardi avrebbero condotto alle aberrazioni dei campi di concentramento. Se è antistorico considerare Lombroso come “volontario e consapevole” precursore di teorie razzistiche, è anche vero che il suo pensiero, come la sua vita, contiene elementi contraddittori.
Ebreo, socialista e conservatore nella sua opera si trovano audacie sociali incredibili (la denuncia delle malattie della povera gente dovute all’egoismo dei ricchi e all’indifferenza dei governi del neo Regno d’Italia, la denuncia della condizione femminile) e nello stesso tempo teorie reazionarie con le quali puntellò i settori più retrivi della società fornendo strumenti scientifici, o pseudo tali, utili a considerare devianti anche i politicamente sospetti. Fu un collezionista di reperti antropologici d’ogni genere provenienti da tutto il mondo, dai più innocenti ai più raccapriccianti, coi quali, nel 1898, inaugurò a Torino un museo di psichiatria e criminologia che sarà riaperto, dopo molti anni, in questi giorni, e al quale destinò, giova ricordarlo, la sua stessa testa conservata nella formalina, a dimostrazione di quanto l’idea della ricerca avesse in lui il sopravvento su ogni altra considerazione. Riallacciandosi alla dottrina dell’inglese Francis Galton, inventore dell’ eugenetica, e protagonista della teoria del darwinismo sociale, il quale riteneva che la criminalità fosse dovuta a fattori innati e, dunque biologicamente condizionata, Lombroso affermò che i comportamenti criminali dell’individuo dipendessero da fattori non dipendenti dalla volontà (eliminando così per l’uomo ogni possibilità di giudizio tra bene e male) ma ereditari, noi oggi diremmo genetici.
Nell’opera “L’uomo delinquente” poi egli dà spazio alle predisposizioni di carattere fisiologico che si rivelano, anche esternamente, nella configurazione del cranio e del volto. Da qui gli studi di fisiognomica di cui egli fu uno dei precursori. Lombroso trascurò e non comprese pienamente come in uno comportamento criminale possano anche influire componenti ambientali di natura sociale ed economica. Nello stesso tempo però, riconducendo la devianza a fattori ereditari, e considerando i comportamenti criminali come frutto di malattie egli, per la prima volta in Italia, contribuì a distinguere il criminale dal malato di mente. L’autopsia del brigante Vilella e la scoperta, nel suo cranio, di una fossetta occipitale mediana, che faceva pensare a un terzo lobo, lo indusse a credere di trovarsi dinanzi a un carattere degenerativo, che caratterizza il delinquente nato che presenta caratteristiche simili a quelle degli animali e dell’uomo primitivo che, con un pregiudizio positivista, viene presentato prossimo agli animali. Si tratta di un determinismo assoluto che elimina ogni forma di libertà e di scelta. Dalle critiche che gli provenivano anche dai suoi stessi allievi, egli fu indotto a modificare in parte le sue teorie ma restò sempre ancorato ad un modo di vedere tipico del borghese dell’Ottocento che considera deviante ogni comportamento che non esprima lo spirito medio della propria epoca. “L’uomo normale -scrisse- è privo di genialità, ma onesto; pieno di buon senso e acume critico, incapace di eccessi”. Devianti dunque i criminali che si rendono responsabili di crimini ma anche devianti i propugnatori di mutamenti sociali, i sovversivi e gli stessi geni. Anzi nell’opera Genio e follia (1864) egli addirittura sostiene che le caratteristiche degli uomini di genio vanno ricercate nella loro anormalità psichica. “Il genio – egli scrive – è inutile e superfluo”.
Esaltato da Freud fu ben presto contrastato per alcune teorie errate (pensiamo all’atavismo criminale) e travolto dalla reazione antipositivista che vide in Italia l’egemonia di Croce e Gentile mentre il pensiero cattolico non gli perdonò la continua strisciante polemica contro la Chiesa e una teoria che, sul piano dell’etica, deresponsabilizzava l’uomo. Il pensiero di matrice marxista, d’altra parte, lo accusò sempre di aver fatto il gioco delle forze economiche e sociali più retrive assolvendo completamente la società nei confronti del crimine. Eppure molte sue intuizioni furono geniali per l’epoca e il suo influsso sullo sviluppo delle dottrine criminologiche è oggi riconosciuto soprattutto per quel che riguarda la funzione dello neuroscienze nello studio dei delitti. A lui va inoltre riconosciuto il merito di aver sottratto il fatto criminoso alla dimensione del peccato e averne fatto oggetto di studio.
Se l’Associazione Anassilaos ricorda Lombroso è da un lato per chiarire, sul piano storico, l’autenticità del suo pregiudizio antimeridionalista, alla luce di un agile volumetto “In Calabria 1862/1897”, concepito durante la permanenza di tre mesi in Calabria, regione nella quale partecipò come medico militare alla campagna contro il brigantaggio successiva all’unificazione italiana (la legge Pica entrerà in vigore nell’agosto 1863), e integrato fino al 1897, che contiene una analisi, invero sorprendente, della storia, della cultura, della lingua e delle tradizioni calabresi, attenta e puntuale e una denuncia aspra delle condizioni della Regione degna del più progressista dei meridionalisti. Dall’altro, e questo riguarda il piano scientifico, ci si affida al Prof. Antonino Monorchio, psichiatra, per conoscere quanto ancora viva dello scienziato piemontese nella moderna ricerca psichiatrica e antropologica.

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