La scommessa metropolitana di Obama

Ad Alessandro Coppola, attento ed acuto osservatore della realtà USA (ricercatore di studi urbani, un passato a Roma 3 e alla Johns Hopkins University di Baltimora), abbiamo chiesto un contributo sulle prospettive della tematica metropolitana bella nuova America del Presidente Obama.
Siamo certi che i lettori di “Urbanistica e Città Metropolitana” lo troveranno di grande interesse.

(E.C.)

La scommessa metropolitana di Obama

di Alessandro Coppola

Una rivoluzione silenziosa
L’America è cambiata e non è più quella degli anni settanta in cui al suburbio bianco e affluente della Middle Class si opponeva invariabilmente l’Inner City povera, afro-americana e ispanica dell’Underclass. A partire dagli anni novanta, la povertà e l’immigrazione hanno rotto gli argini difensivi eretti dalle contee suburbane per diffondersi fra i paesaggi idilliaci delle tante Levittown – questo è il nome di uno dei più noti insediamenti suburbani post-bellici – costruite nel secolo scorso; mentre in molte delle città del paese in via di riqualificazione tornavano i giovani, i professionisti e gli immigrati con il loro fantasmagorico seguito di quartieri etnici e aree gentrificate. Nel 2007, nonostante l’incidenza della povertà sulla popolazione complessiva dei sobborghi fosse ancora la metà rispetto a quella che si registra nelle città, i poveri suburbani superavano ormai quelli urbani di circa un milione e mezzo. Un sorpasso storico, certo dovuto alla maggiore crescita demografica dei sobborghi nei confronti delle città, ma anche al convergere dell’incidenza dei bassi redditi sul totale della popolazione che si accompagna a livelli paragonabili di intensità della povertà – vale a dire il quanto si è poveri – dentro e fuori i confini delle Inner-Cities. Pur trattandosi di medie scaturite dai numeri molto diversi che arrivano dalle prime cento aree metropolitane del paese, la tendenza è chiara. Come chiaro è anche il destino di invecchiamento che sta di fronte ai sobborghi: i babyboomers che hanno spinto la colonizzazione suburbana negli anni della grande espansione stanno invecchiando. E ora, il mito della famigliola giovane, bianca e benestante intenta nella celebrazione del barbecue domenicale nel backyard della loro casetta unifamiliare in un qualche nuovo insediamento di Cleveland o Baltimora è sempre più sostituita dalla realtà di coppie di settantenni o di famiglie con redditi bassi e spesso appartenenti alle minoranze. Quella del cambiamento del mondo suburbano è una rivoluzione silenziosa destinata a pesare sulle rappresentazioni consolidate che gli americani hanno dell’ambiente in cui vivono. Come ricorda Bruce Kats – l’esperto di politiche urbane del Brookings Institute molto ascoltato alla Casa Bianca – ‘i suburbi non rappresentano più un ritiro dal tumulto della vita americana ma la sua sede principale’.

I democratici: oltre l’agenda tradizionale
E questa rivoluzione silenziosa impone ai democratici un ripensamento della loro agenda tradizionale. Da Roosevelt in poi, ogni presidente democratico che si rispetti ha avuto le sue politiche urbane, anche per sdebitarsi con i suoi grandi-elettori più fedeli: quelle urban machines politico-elettorali e clientelari che dapprima bianchissime hanno poi via via incluso, seppure in modo spesso assai conflittuale, le minoranze (poi fattesi maggioranze) ispaniche e afro-americane. Ma per un quarantennio abbondante, nei programmi elettorali, alla voce Urban Policy si trovava l’elenco di un insieme di misure volte prevalentemente a combattere la povertà urbana. Dalle politiche di quartiere inventate da Johnson con la sua Great Society e War on Poverty fino a quelle per lo sviluppo economico delle Inner Cities e per la demolizione del Public Housing e la sua sostituzione con nuovi quartieri modello introdotte da Clinton, il Partito Democratico ha sperimentato quasi tutti i modelli d’intervento, privilegiando variabilmente la partecipazione delle popolazioni marginali e la loro dispersione, il potenziamento e l’integrazione dei servizi sociali e la trasformazione fisica e produttiva dei quartieri in declino. Ma nonostante l’aumento della concentrazione spaziale della povertà nel corso degli anni 2000, un passo indietro rispetto alle speranze degli anni 90, non sarà possibile per Obama limitarsi a fare quello che tutte le amministrazioni democratiche hanno fatto dagli anni sessata in avanti: vendicare i poveri delle Inner Cities, investendo in pur ben disegnate ed efficaci politiche di quartiere. L’opportunità di spingere le politiche urbane federali al di là dei loro orizzonti tradizionali rappresenta un’ottima occasione per un presidente che vuole essere un grande innovatore, alla costante ricerca di nuovi paradigmi chiamati a sostituire convinzioni e cleavages sclerotizzati.

Dalle parole ai fatti?
La parola d’ordine della politica metropolitana, infaticabilmente propagandata dal già citato Bruce Katz, di questa opportunità è celermente divenuta il veicolo. L’argomento chiave del Metropolitan Program del Brookings Institute di Washington è da tempo un truismo fra i cantori delle nuove economie urbane: sui mercati globali, è la competitività delle aree metropolitane a fare la forza e la vitalità di un’ economia nazionale, soprattutto se avanzata. “Le prime cento aree metropolitane del paese – ripete Katz – occupano il 12% della superficie ma ospitano i due terzi della popolazione e producono il 75% del Pil. Inoltre, esse riuniscono sul loro territorio i fattori che accrescono la ricchezza: l’innovazione, il capitale umano, le infrastrutture e i luoghi di qualità”. E se è vero che l’economia americana post-recessione sarà spinta più dall’innovazione, soprattutto energetica, e dalle esportazioni che dai consumi interni e dal settore finanziario, allora “il momento attuale, per l’America, è metropolitano”. Sulla base di questi assiomi, a essersi affermata è un’idea che vede nel disegno di politiche federali che orientino lo sviluppo delle aree metropolitane, costruendone capacità istituzionale, un imperativo sia politico sia economico. Obama ha più volte fatto intendere che le idee di Katz sono anche le sue. L’arena metropolitana è diventata così lo spazio di elezione nel quale far confluire molti degli ingredienti della ricetta obamiana per l’America: sostenibilità ambientale, adeguamento infrastrutturale, innovazione, neo-universalismo sociale e intelligenza delle istituzioni. Non più solo politiche sociali a favore dei gruppi sociali emarginati che si concentrano nelle Inner Cities – che pure hanno ricevuto l’attenzione della nuova amministrazione con l’introduzione di due nuovi programmi federali: Promise Neighborhoods e Choice Neighborhoods – ma un ben più ambizioso combinato strategico di interventi economici, urbanistici, ambientali, sociali e infrastrutturali rivolto all’insieme delle aree metropolitane. Un cambio di scena – dalle Inner Cities alla Metropolitan Areas – e di soggetto di riferimento – dai gruppi sociali marginali all’insieme delle società metropolitane. Per ora sono tre i segni concreti della nuova strategia della Casa Bianca, sulla quale si stanno concentrando gli sforzi di (precoce) valutazione degli ideologi della svolta metropolitana. Primo, la creazione del nuovo White Office for Urban Affaires – che pur fra lo scetticismo diffuso sulla sua effettiva capacità di leadership – della nuova politica metropolitana dovrebbe essere in teoria il primo dei registi. L’ufficio è per ora impegnato, oltre che in una ricognizione delle (poche) buone pratiche sul tema in giro per il paese, nella revisione comprensiva dell’impatto delle politiche federali sulle aree metropolitane in vista della loro riformulazione strategica. Secondo, l’inclusione nello Stimulus Package di 335 miliardi di dollari in programmi che secondo il Brookings Institute avranno un impatto metropolitano – dall’energia pulita alla formazione al lavoro, dal trasporto pubblico all’alta velocità ferroviaria, dalla scuola all’innovazione tecnologica – anche se, lamentano, l’urgenza delle misure ha molto spesso trascurato l’individuazione di più robusti incentivi alla pianificazione metropolitana degli interventi. Terzo, il lancio, nel Budget del 2010, di un nuovo programma – battezzato Sustainable Communities – che fa propri i principi della Smart Growth concedendo 150 milioni di dollari a quei comuni metropolitani che si coordinino nella pianificazione comune di interventi in materia di uso del suolo, housing e trasporto pubblico; piani entro i quali spendere altri, ben più consistenti, trasferimenti federali di natura ordinaria.

Regionalismo dal basso, anzi dall’alto.
Ma la posta in gioco è ben più alta dei miliardi di dollari che fra Stimulus Package e Budget 2010 stanno inondando il territorio. La scommessa di Obama è quella di poter lasciare un segno originale nella secolare lotta per l’individuazione del punto di equilibrio fra i poteri nel federalismo americano. Una scommessa che riguarda anche le ambizioni egemoniche del partito democratico cui, mai come ora, i pur fedeli elettorati urbani non sono più sufficienti. Soprattutto se l’obiettivo non è un’esaltante ma episodica vittoria elettorale, ma il radicarsi di un lungo ciclo di potere progressista a Washington e nel resto del paese. Se con Johnson l’influenza del governo federale negli affari locali aveva raggiunto il suo apice, a partire da Nixon la macchina della devolution non si è mai fermata, riconsegnano agli stati soldi e poteri. Ma in un’America metropolitana – questo l’argomento spesso solo sussurrato, data la sua radicalità, dai sostenitori della svolta metropolitana – ha senso un federalismo dominato da governo federale e amministrazioni statali, giganti posti all’apice di un sistema polverizzato in decine di migliaia di comuni urbani, contee suburbane e townships? Un sistema nel quale, tranne pochissime eccezioni, le aree metropolitane non hanno un governo se non, quando va bene, assai precari accordi di cooperazione settoriale? La perenne conflittualità fra le amministrazioni delle città centrali e le confinanti aree suburbane da problema si è trasformata in emergenza, in un’America che a molti pare essere divorata da quel suo stesso pluralismo istituzionale, societale e territoriale che pure ne ha fatto una delle patrie più autentiche della democrazia liberale. Di fronte alla pressione crescente della competizione globale, del problema ambientale e di una questione sociale e razziale ben lungi dall’essere risolta, i ‘diritti territoriali’ sembrano sempre di più privilegi anacronistici frapposti dai più ricchi sulla strada della soluzione dei problemi nazionali. Quando è impossibile armonizzare la tassazione per dare un pò di sollievo alle esauste finanze delle Inner-cities, quando si nega la partecipazione ad uno schema di trasporto pubblico metropolitano affossandolo e quando si impedisce la costruzione di social housing nel proprio territorio, a risentirne – così argomentano i liberal – è la competitività economica e la coesione sociale dell’intero paese. Ma, come abbiamo visto, con il cambiamento della geografia urbana e sociale del paese, città e suburbio si trovano ad affrontare problemi sempre più simili fra loro: un incentivo potentissimo all’affievolirsi dei localismi di classe che tanto affliggono i seguaci di Katz. Di fronte a Barak Obama sta l’opportunità di approffitare di una congiuntura storica per reinventare l’equilibrio fra i poteri, senza tornare all’interventismo federale vecchio stile: una rivoluzione silenziosa, quanto quella che sta trasformano la geografia urbana del paese, che sia capace di costruire un nuovo potere metropolitano de facto attraverso gli incentivi alla cooperazione territoriale contenuti nelle sue nuove ‘politiche urbane’. Una strada in salita per i democratici, ma ancor di più per l’America del XXI secolo, se non darà ascolto ai predicatori del buon senso metropolitano.

(Una versione più ampia del presente articolo è stata pubblicata sul numero 47 della rivista “Aspenia”)

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