I palazzi di Reggio Calabria dopo l’incendio turchesco del 1594

A Francesco Arillotta, studioso ed appassionato di “cose reggine”, il cui approccio scientifico, testimoniato dall’ampia produzione scientifica, trascende sempre dalle angustie del “localismo”, abbiamo chiesto per l’uscita settimanale della Rubrica “Urbanistica e Città Metropolitana” un contributo – alla luce del tragico e devastante incendio turchesco del 1594 – sul complesso rapporto storia/memoria/identità.
Proprio ieri, presso Palazzo Foti, in una Conferenza Stampa convocata dal Presidente dell’Amministrazione Provinciale di Reggio Calabria Giuseppe Morabito, il Prof. Francesco Arillotta stato presentato come docente “a Contratto” di “Storia e cultura della Calabria”, nuovo qualificato insegnamento del corso di laurea in Urbanistica presso la facoltà di Architettura dell’Università Mediterranea (4 CFU, aperto anche a tutti gli studenti dell’Ateneo), attivato grazie alla collaborazione tra la stessa Facoltà e l’amministrazione provinciale, che lo sostiene con un finanziamento triennale significativo insegnamento che servirà a far conoscere meglio ed in maniera più approfondita la cultura della propria regione.

(E.C.)

Chi progettò e costruì i palazzi di Reggio Calabria dopo l’incendio turchesco del 1594?
di Francesco Arillotta

Il 3 settembre 1594, la flotta ottomana comandata dal rinnegato siculo-calabrese Scipione Cicala, diventato turco con il nome di Sinan Bassà, forte di ben novantasei vascelli, attacca Reggio.
Per gli avvertimenti forniti dalle torri di vigilanza dislocate lungo la costa messinese e reggina, che avevano scorto già da qualche giorno le navi che manovravano per entrare nello Stretto, tutti erano al corrente dell’imminente aggressione; così che la popolazione aveva avuto tutto il tempo di lasciare la città, dopo aver diligentemente svuotato le case e smontato persino gli infissi.
L’arcivescovo Annibale d’Afflitto, fresco di nomina, si era rifugiato per sicurezza a Motta Sant’Agata. Le monache del monastero di San Matteo e le campane delle chiese principali erano state trasferite a Messina, ritenuta inattaccabile.
Una volta sbarcati, solita ‘procedura’ da parte dei Giannizzeri: dopo aver cercato tesori in ogni posto – anche sotto i mosaici normanni della chiesa degli Ottimati –, e aver sparso al vento le ceneri del precedente arcivescovo, Gaspare Dal Fosso, la città viene data alle fiamme. Per giorni, bruciò tutto: anche l’archivio dell’Arcivescovato; privando noi posteri dei preziosissimi documenti in esso conservati.
Per le distruzioni provocate dall’incendio, d’Afflitto si vide costretto ad ordinare la demolizione di numerose antiche chiese, risalenti all’età bizantina e medievale.
Ancora qualche anno più tardi, gli atti notarili parlano della chiesa di San Francesco d’Assisi ‘combusta anni preteritis a turcis et infedelibus’, della chiesa del convento [carmelitano] di Santa Maria delle Grazie ‘ex incendio turcarum adhuc discoperta’.
Ma già dopo poco tempo, le stesse fonti notarili ci attestano che a Reggio c’erano grandi palazzi e belle chiese.
A quest’epoca risale la costruzione del magnifico palazzo a tre piani del canonico Lelio Furnari Monsolino, proprio vicino la chiesa di Santa Maria delle Grazie; o dell’altro, egualmente imponente, del reggino-fiorentino Diego Strozzi, posto al centro della città, con un prospetto sullo ‘stradone’ di ‘palmi 152 ½’ – quasi 40 metri –, che diventerà più tardi un monastero di Domenicane. Ai quali si possono aggiungere i palazzi Sirti, Genoese, Piconieri, Melissari, Plutino, Griso, nonché quelli dei Rota, dei Francoperta, dei Saragnano.
Sul lato dell’edilizia religiosa, ecco il ricostruito palazzo arcivescovile, la chiesa di San Paolo fuori Porta Mesa, il convento dei Paolotti al Calopinace, la nuova sede dei Padri Carmelitani, il vasto cenobio dei Domenicani che copriva tutta l’area oggi occupata dal Teatro ‘Cilea’, il ‘Luogo Nuovo’ dei Cappuccini con la pala d’altare del Gotti, la chiesa del Convento di Sant’Agostino che aveva l’unica cupola della città.
Contemporaneo è il completamento della Cappella del Sacramento che, costruita, all’inizio, fuori del Duomo, ne fu in seguito inglobata, e che si presenta ancor oggi preziosa nelle sue decorazioni di marmi intagliati. Quei ‘marmi mischi’, classici dell’architettura seicentesca, di cui abbiamo un’altra testimonianza, purtroppo solo documentale, nel lavoro di Placido Brandamante, ‘intagliatore di marmore messinese commorante a Reggio’, il quale, insieme a Jacobo Gullì, reggino, curò, nel 1638, la costruzione della sontuosa tomba di Diego Strozzi, nella chiesa del Rosario all’Incoronata.
Di tutti questi edifici, non esiste alcuna immagine che li raffiguri; il terremoto del 1783, e la successiva trasformazione radicale dell’area urbana, hanno spazzato via ogni testimonianza.
Tuttavia, in qualche caso, ci sono pervenuti degli inventari descrittivi, che ci permettono di conoscere quanto meno la loro struttura interna.
Le case ‘palazziate’ erano, di solito, ‘insolate’, cioè circondate su tutti i lati da strade pubbliche. Il basamento esterno poteva essere decorato ‘con cantoni di petra di seragusa’.
Dal portone principale si accedeva in uno o due ‘cortigli’, chiamati, talvolta, molto probabilmente per la loro ampiezza, ‘planitia’; nel cortile, c’era sempre il pozzo ‘per servimento della famiglia’. L’edificio, ‘con solaro inferiore e superiore’, era diviso ‘in pluribus membris et appartamentis’. C’era anche una ‘scala di fora’, che dal cortile portava ad alcuni locali dei piani rialzati: concetto della casa patriarcale, costruita per ospitare tutti i membri maschi della famiglia, man mano che si fossero sposati.
Al piano di strada, con ingresso, però, dal cortile, c’erano il ‘magazeno’, la stalla con il ‘reposto’ per la carrozza, la stanza del garzone, le camere per i ‘creati’, la cantina e la dispensa; sulla strada si affacciavano le ‘poteche’ da affittare o lo ‘studio e retrostudio’, nel quale si svolgeva l’attività pubblica della famiglia. Al piano superiore: anticamera, sala, e poi un ‘braccio a banda sinistra’ con più camere, a destra un altro ‘quarto’ con ‘due camere et una galleria’; sopra il quartierino di sinistra, una seconda galleria. C’era la camera che si affacciava verso lo scirocco, e la ‘camera grande di alto’ che si apriva ‘verso borea’… per garantire ai suoi fruitori una maggiore frescura estiva.
La descrizione del Palazzo Monsolino è talmente accurata da consentire l’individuazione del fabbricato sulla pianta della città, redatta, dopo il terremoto del 1783, dai Cadetti topografi della Scuola per Ingegneri Militari della Nunziatella di Napoli. Il palazzo viene stimato per 2700 ducati.
Abbiamo anche le descrizioni dei beni mobili collocati nelle molte stanze di questi palazzi: ‘sei seggi di vacchette rossi di fiandra allacciati’ e ‘sei di coiro nero’, ‘una lampara di labicaro con il coperchio di piombo’, un ‘cascione’ di noce con tre ‘tiraturi’, un ‘tripedi’ di noce ‘per lavare le mano’, il ‘bracciero di rame con pedi di noce’, lo scrittoio ‘con lavori di matri perna et lo specchio dentro’, un ‘rilogetto d’ottone’, e perfino una bella serie di abiti ricercati e di gioielli molto raffinati, che la dice lunga sull’eleganza dei nostri seicenteschi antenati.
In queste case ricche c’era anche un numero di quadri sempre piuttosto ragguardevole: ben ottantasette solo nella casa del barone Giovan Francesco Paravagna!
Si tratta di quadri con soggetti religiosi, con ‘le dodici Sibille’, ‘le quattro stagioni dell’anno’, ‘vedute di mare’, e gli immancabili ritratti dei personaggi più celebri della Casata.
Non per niente, l’artista bolognese Vincenzo Gotti, uscito dalla famosa scuola dei Carracci, amico di ventura di Guido Reni, stabilitosi a Reggio dopo aver sposato la reggina Giovanna D’Urso, si vantava di aver dipinto oltre 200 tele.
Ad una domanda, però, fino ad oggi, non si è potuto dare risposta: chi progettò e chi curò la edificazione di cotanti fabbricati? Tra l’altro, in un intervallo di tempo particolarmente breve: non più di una quindicina d’anni?
Sappiamo da documenti coevi siciliani che gli architetti, progettisti e quasi sempre realizzatori allo stesso tempo, si muovevano con le loro squadre di capimastri ed operai specializzati, là dove era richiesta la loro presenza; solo i ‘bastasi’ erano, comprensibilmente, reclutati sul posto. Ma non esistono, presso i notai reggini, contratti al riguardo.
Molto probabilmente, tali atti sono conservati negli archivi delle città di residenza dei costruttori: Messina, Palermo, Napoli.
L’auspicio è che, nei centri universitari di merito, si promuovano ampie e mirate ricerche in questa direzione. Per integrare le tanto magre notizie che, purtroppo, abbiamo su un periodo così interessante della Storia dell’Architettura Civile e Religiosa reggina.

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