“Berlino 1940 La convocazione”. A colloquio con l’autrice Nadia Crucitti

Berlino 1940 La convocazione di Nadia Crucitti edito da Città del Sole Edizioni è un testo inquietante da leggere con attenzione. Interroga tutti. È ambientato durante gli anni delle Germania nazista ma la vicenda potrebbe accadere ovunque e sempre. Quanto è valido il concetto che in fondo quell’uomo politico ha comunque fatto qualcosa di buono? È quello che pensa Veit Harlan, il protagonista. È un regista cinematografico secondo il quale Adolf Hitler ha operato bene, e convinto che le persecuzioni di ebrei e oppositori sono un fatto momentaneo che ben presto cesserà.
Ma la storia fu diversa. Un giorno Veit Harlan è convocato da Joseph Goebbels che gli ordina di girare un film di propaganda. Capirà a sue spese che non esistono dittature buone ma democrazie e dittature e il nostro sostegno deve andare alle prime. Perché un eccellente sistema sanitario e treni in orario non possono essere barattati con la libertà. La democrazia, diceva Winston Churchill, è il peggiore dei sistemi politici ma non ce n’è uno migliore. Una democrazia è tale non solo quando elegge i propri uomini politici (accadde così in Germania con Hitler) ma quando rende possibile a un popolo di non votarli e rimandarli a casa. E, corollario affatto trascurabile, quando tutela le minoranze: tutte, nessuna esclusa. Per saperne di più sul volume edito da Città del Sole Edizioni, abbiamo ascoltato l’autrice Nadia Crucitti.

Come nasce questo libro?

Il libro è nato circa quindici anni fa, ma l’interesse per quel periodo storico risale alla mia infanzia quando ogni tanto coglievo frasi smozzicate, accenni o l’eccessivo nervosismo dei miei genitori se rifiutavo un cibo che non mi piaceva: mio padre, giovane ufficiale italiano, il 10 settembre 1943 era stato arrestato vicino a Garessio, in provincia di Cuneo, dai tedeschi e chiuso in un campo di concentramento dal quale è ritornato molto provato sia fisicamente (pesava sui quaranta chili, e lui è alto 1,82) sia nell’animo; proprio alcune settimane fa la Presidenza del Consiglio dei Ministri gli ha comunicato la concessione di una medaglia d’onore per i militari italiani deportati e internati nei lager nazisti. Mia madre, toscana di Carrara, aveva sofferto fame e paura non solo perché suo padre era anarchico e veniva picchiato regolarmente dai fascisti, ma anche perché la furia omicida dei tedeschi, dopo l’8 settembre, causò terribili stragi nel Nord Italia e, naturalmente, lei viveva nel terrore. Tutto questo mi ha spinto, crescendo, a saperne di più su quanto era accaduto. Durante questi studi mi è capitato di leggere tre storie che mi hanno colpito, e una riguardava il film Jud Süss; ma per capirle a fondo dovevo calarmi in quel periodo e vivere attraverso quei personaggi: sono nati così due dei tre romanzi che compongono la Trilogia di Berlino (il terzo l’ho appena iniziato e, visti i miei ritmi, dovrebbe essere completato tra cinque o sei anni). Inizialmente, la storia di Harlan conviveva con un’altra nello stesso romanzo, ma ognuna di loro reclamava più spazio e così si sono divise. Di Harlan non riuscivo a capire la scelta, forse perché avevo una visione idealizzata dell’artista, poi invece mi sono resa conto che nel bene e nel male “l’artista, creatore del sogno e cesellatore di magiche illusioni, è parte della storia di ogni giorno”.

“Le dittature o si accettano così come sono o si rifiutano” Questa frase del suo libro è chiara e sgombra il campo da equivoci. Vuole ribadirla e ampliarla?

In una democrazia se non ti piace chi ti governa continui tranquillamente la tua vita perché comunque sai che esiste un’opposizione che salvaguarda la libertà di tutti. In una dittatura no. Se l’accetti resti; se la rifiuti, anche solo nel cuore perché non puoi andar via, almeno eviti di partecipare attivamente. Veit Harlan, invece, crede di esser libero di scegliere.

Talvolta si sente dire di fronte alle tragedie della storia che quel protagonista non si è macchiato le mani di sangue, ma non crede che chi incita all’odio abbia maggiori responsabilità di chi materialmente lo mette in pratica?

Le mani di Hitler grondano sangue: a prescindere dai milioni di morti che ha provocato per la guerra che ha scatenato, è stato lui a causare la Shoah anche se non ha ucciso materialmente nessuno. A uccidere sono stati “i volonterosi carnefici” della sua stessa risma che hanno seguito i suoi terribili incitamenti all’odio; quindi è colpevole sia chi esegue, sia chi incita. Ma se chi incita ha potere, allora è doppiamente colpevole.

Il protagonista si chiede cosa possa fare. Cosa può  fare ciascuno di noi in simili situazioni? Quali sono i campanelli d’allarme e i limiti invalicabili?

Ho scritto il libro anche per cercare di capire questo. Che cosa avrei fatto io? Che cosa poteva fare Harlan? La situazione in Germania era caotica e il futuro nero, io credo che molti non abbiano capito e tra questi c’era Veit Harlan che, per esempio, non era affatto antisemita perché la prima moglie era ebrea ed era stata lei a lasciarlo, e anche un suo caro amico era ebreo (nel libro non compare perché quando sono riuscita a mettermi in contatto con la figlia di Harlan e con lo scrittore Frank Noack, autore della biografia di Harlan dal titolo “Il regista del diavolo”, il mio romanzo era ormai finito; inoltre il fatto che avesse un amico ebreo non modificava il suo essere nazista). Quindi Harlan era un uomo come tanti, oggi basta guardarsi intorno per trovarli innumerevoli, un uomo superficiale che si curava soltanto della sua carriera senza capire appunto che le dittature o si accettano o si rifiutano. Per me Harlan è colpevole, ma lo è ancora di più perché non solo dopo Jud Süss lui ha continuato la collaborazione con la dittatura, ma alla fine della guerra, dopo la conclusione dei processi, poteva chieder scusa alle vittime per la sua superficialità. Se dopo quel film avesse rinunciato alla carriera, se si fosse ritirato nell’ombra, oggi forse sarebbe stato scusabile perché il coraggio non è certo roba da tutti e anche perché nel 1940 i campanelli d’allarme c’erano già, ma per un uomo superficiale e preso solo da se stesso come Harlan, era difficile prevedere l’orrore che sarebbe seguito.

Talvolta si dice che è preferibile combattere dall’interno un fenomeno politico negativo. Non è una scelta pericolosa?

Combattere un fenomeno politico dall’interno è certamente molto pericoloso specialmente se si tratta di una dittatura. I campi di lavoro erano pieni di comunisti, di religiosi, gente coraggiosa che diceva no apertamente; tutti quelli che hanno congiurato contro Hitler sono stati uccisi, così come sono stati uccisi gli studenti cristiani poco più che ventenni Hans Scholl, sua sorella Sophie, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, e il loro professore Kurt Huber, appartenenti alla Rosa Bianca, un gruppo che si oppose in modo non violento al nazismo e che propugnava la resistenza passiva. Ma di sicuro ci saranno stati migliaia di intellettuali, di artisti e gente comune, a dire di no in silenzio, rinunciando alla carriera, rinunciando a pubblicare. Penso, ad esempio, il padre di Joachim Fest, che ha detto “io no” e ha subìto, insieme alla famiglia, prevaricazioni e umiliazioni. E penso anche al vescovo di Münster, Clemens August Graf von Galen, e a quelli che l’hanno seguito nella sua opposizione al nazismo. Ma sono stati pochi rispetto alla massa ottenebrata da false promesse e dalle iniziali rassicurazioni sulla pace di Hitler.

Non crede che la Germania abbia fatto i conti con la propria storia più dell’Italia?

La Germania è stata colpita in modo durissimo, sia fisicamente, sia spiritualmente. Ciò non toglie, comunque, che molti criminali di guerra “hanno trovato presso i Tribunali tedeschi la massima comprensione” come ricorda Hannah Arendt nel libro La banalità del male. In ogni caso, la vergogna dello sterminio è pesata molto, e infatti ancora oggi la visione pubblica di Jud Süss è proibita, a meno che non faccia parte di una programmazione culturale seguita da un dibattito. Ma è poco perché in Germania si assiste a una recrudescenza dell’estrema destra (e lo stesso sta accadendo in Italia), quindi è evidente che siamo di fronte a una dimenticanza sociale di quel terribile periodo.

Tonino Nocera

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