Così morì Filippa: sedotta, abbandonata e… tradotta in latino

Reggio Calabria. La tragica fine di Orsola Fallara, la dirigente dell’ufficio finanza e tributi del Comune di Reggio che fece ricorso all’acido muriatico per togliersi la vita, mi ha fatto venire in mente una novella di stampo siciliano: “Così morì Filippa”, scritta dal prof. Gino Raya, creatore, tra l’altro, della teoria del famismo che si rifaceva alla corporeità ed escludeva ogni forma di metafisica, facendo derivare ogni azione e reazione, comprese le opere letterarie, dalla fame.
La novella venne pubblicata trentotto anni or sono nella rivista “Narrativa”, il cui testo è stato tradotto in latino dal filologo di fama internazionale, prof. Antonio Mazzarino, già preside della prestigiosa Facoltà di Magistero dell’Università di Messina (dal 1965 al 1998) deceduto a Roma nell’aprile del 1999. La novella con la quale il Raya, ricollegandosi ai maestri del verismo siciliano offre l’esempio di una “appassionata” descrizione come quelle che Don Lisi, cioè Luigi Capuana, volle raccogliere nel 1891 e narra un fatto realmente accaduto in Sicilia, in una cittadina della provincia di Caltanissetta. La proponiamo ai lettori di Newz con la consapevolezza che possano trarre le dovute considerazioni.
Citiamo le prime due righe nel latino del prof. Mazzarino: “Post diem tertium quam venenum sibi dederat, Philippa morta est”.

Naturalmente, per una immediata lettura, pubblichiamo soltanto il testo in italiano:
«I giornali dell’11 novembre stamparono che Filippa si era avvelenata ed era morta dopo tre giorni, e basta. Le cose, però, andarono a questo modo, e lo sanno ancora il Padre il Figlio e lo Spirito Santo. Filippa non era ordinaria come sua sorella Giovanna, quella sposata; ma era bella e bionda, e sembrava anche più grande dei suoi diciotto anni, tanto era sviluppata: e si voleva maritare. Le capitò, prima, un carabiniere; stettero sei mesi fidanzati. Lui, però, doveva andare lontano dal paese, e aveva già fatto le pratiche per il trasporto delle masserizie. Ma la madre di Filippa diceva: “Se mia figlia se ne va, come la vedo? Dove lo trovo il mio quadro?” Quando stavano per sposarsi, la madre si mise a gridare come se la scannassero, e il carabiniere partì solo. Poi capitò un elettricista, che stava in paese, e dunque la madre poteva essere contenta. Ma Filippa non sapeva che fare, perché le pareva che da un carabiniere ad un elettricista scendesse di grado. E domandava consigli alla sorella.
Giovanna, la sorella, aveva il pensiero della casa. Se Filippa sposa qui (pensava), quando i genitori muoiono, io non posso abitare la casa; lei ne vorrà almeno la metà. Perciò le consigliava di non sposare uno del paese; era la campana contraria a quanto diceva la madre. Anche quel fidanzamento sfumò. E sfumarono anche quelli col figlio dell’avvocato e con la guardia di finanza. Con la guardia di finanza erano giunti al punto da farle il vestito di nozze; e poi sempre quella madre, che non voleva sentire di vedersi partire Filippa, aveva sconchiuso tutto. Intanto era arrivato il vetraio Pippo e si era messo a lavorare nella stessa via, a due passi dalla casa di Filippa. Pippo aveva a Messina la moglie e una bambina di tre anni, ma nessuno lo sapeva. E chi doveva guardare, se non la più bella della strada? Filippa pensò: “se parlo di quest’altro, mia madre scombina tutto un’altra volta; forse è meglio prendere la fuga, e come finisce si conta. Tanti e tanti matrimoni, in paese, si fanno con la fuga: quello di Filippa aveva il destino segnato.
Verso le dieci di sera di mercoledì 6 novembre, Filippa se ne fuggì con Pippo, e lo sapeva soltanto Giovanna. Ma Giovanna, come se non sapesse niente, domandava ai vicini: “È qui Filippa?”. Non c’era, e tutti immaginavano il fatto, e andarono a letto quasi contenti. Ma alle quattro, che ancora era buio, si sentì picchiare al portone: Pippo riportava a casa la ragazza! Erano stati in un albergo, e tutto era finito. Il padre di Filippa non era ancora uscito per andare a lavorare le mattonelle e, dal pianerottolo del secondo piano, disse a Pippo: “Così presto l’hai riportata a casa?”. Il discorso avvenne nelle scale (e qualcuno dei vicini ascoltava). Pippo diceva: “Io devo partire per Messina, perciò la ho portata. Devo fare le carte per il matrimonio. Io non sono sposato, questa è la mia carta d’identità: la volete? Ma intanto la teneva stretta in mano, perché era tutto al contrario. Parlava tremando, come stranito, e proprio la tessera gli cadde di mano, e Filippa la prese. Allora lui capì che si sarebbero accorti dell’inganno e cambiò registro. “Soffocate la cosa disse, perché io di notte ho preso la ragazza e di notte la riporto. Nessuno sa niente. Io sono sposato e padre di una bambina di tre anni”. Ma che soffocare! La madre di Filippa si mise a gridare, al solito: “Mamma mia!” e “Figlia mia!” e intanto i vicini erano entrati, e Pippo se ne era scappato. E così cominciò la cattiva giornata di mercoledì.
Il padre uscì presto, per consultare il figlio di un suo fratellastro, avvocato. L’avvocato gli disse che avrebbe fatto ricercare dalla polizia quel disonesto. Ma Filippa, a casa, aveva la lima sorda della madre; “Che farai, figlia sciagurata? Che fuoco grande in casa mia. Io lo specchio dell’onestà. Tua sorella lo specchio dell’onestà. Tua nonna lo specchio dell’onestà. Tu ci hai disonorato. Mamma mia che fuoco grande. Che farai, figlia sciagurata?” A un certo punto Filippa scattò: “Insomma, la finisci? Se no mi avveleno. E la madre: “E che aspetti? O ti avveleni o ti getti dal Pontile. Che fuoco grande in casa mia, Che farai svergognata? O ti avveleni o ti getti dal Pontile. Mamma mia che fuoco grande. Che vuoi fare? O ti avveleni o ti getti dal Pontile”. La sorella diceva mezze parole: “Ora basta mamma. Ma d’altro canto, ragione ci ha. Sventata sei stata, non dovevi fuggirtene. Il padre, rincasato, diceva: “Pazienza, quello che è fatto è fatto. Ora potresti andare in città, in casa di tuo fratello sposato; e magari ti impieghi. Io ti darò dei soldi”. Ma la madre e la sorella non volevano, perché così Filippa avrebbe fatto vergogna a suo fratello e a sua cognata specchio dell’onestà, e che farai svergognata.
La svergognata, verso le 11 uscì come una pazza e andò da una vicina che vendeva il sale e il vino, e le chiese in prestito una bottiglia per comprare un quarto di marsala, che non ne poteva più del mal di testa. Avuta la bottiglia, chiamò una ragazzina e le disse: “Me lo compri mezzo quarto di acido muriatico?” Ma la ragazzina rispose: “Ci devi andare tu, perché a me non lo vendono”. Filippa rientrò nel suo portone, e nelle scale c’era Giovanna. Giovanna le disse: “Te lo vado a comprare io?” E così fece. Filippa aspettava nelle scale. Giovanna tornò presto e le diede la bottiglia: “Però non lo dire a nessuno che l’ho comprato io”. La poveretta bevve subito tre bocconi dell’acido, e svenne, e ruzzolò fino al pianerottolo del primo piano, davanti alla porta dell’infermiera che sta sempre all’ospedale. La bottiglia cadde a terra e si ruppe, mentre l’acido bolliva sui gradini. Da sotto accorrevano tre vicine, da sopra si affacciava la madre e diceva, di seguito: “Che c’è? Filippa si è avvelenata!” E gridi, e altre persone, e volevano portare Filippa all’ospedale. La madre, invece, la fece portare dentro sul letto. “All’ospedale no, per ora, prima chiamate mio marito, che lavora le mattonelle vicino la spiaggia, è lui che deve decidere”. Due uomini ci andarono e così passò circa un’ora. Finalmente venne il marito, presero una carrozza e via all’ospedale. Ma i medici, all’ospedale, dissero che ormai la gola era tutta bruciata, e non c’era nulla da fare. Ad ogni modo, trattennero la giovane tutta la notte. Il giovedì mattina, Filippa tornò a casa. Ogni tanto Giovanna e la madre le dicevano: “Stai attenta!” e lei le rassicurava con gli occhi. Però aggiungeva, “mi dovete seppellire col vestito bianco di nozze” (quello che era pronto per il matrimonio con la guardia d finanza) e così passò il giovedì e il venerdì e spuntò il sabato che doveva finire con la morte. Saturni die postmeridiano tempore domum una adveniunt et iudex et medicus qui, praesentibus patre et matre et sorore, Philippam collocuntur. Il sabato pomeriggio vennero in casa il giudice e il dottore insieme e parlarono con Filippa, alla presenza del padre, della madre e della sorella. Tutti e cinque entrarono nella stanza di Filippa e le chiedevano: “Nessuno ti ha consigliata ad avvelenarti?” Lei rispondeva: “no, nessuno”, ed era quello che più importava. Poi lei aggiunse: “Chiamatemi un prete”; e la madre pregò il dottore di mandarlo. Quando venne il prete, di nuovo la stanza di Filippa fu sgombrata dalle vicine, e ci rimase solo il prete, che uscì presto. E allora Filippa disse: “vestitemi, che fra cinque minuti di sicuro che muoio”. “Che dici, stai tranquilla”, le diceva la madre. Ma lei rispose: “Mi devi mettere le lenzuola celesti, quelle ricamate, e la coperta rosa”. Come le usciva la bava dalla bocca, la madre non voleva che le lenzuola buone si sporcassero, e pigliava tempo. Ma Filippa aveva detto giusto. Infatti le spuntò un cerchio nero attorno agli occhi, diede un profondo sospiro, e rese l’anima a Dio. Margherita le chiuse gli occhi, potevano essere le sette di sera.
Un’altra vicina, che si chiama Nella, le mise un fazzoletto per tenerle chiusa la bocca, e Margherita annodò il fazzoletto sulla testa della morta. Una terza vicina si mise alla porta per impedire che entrassero gli uomini. Giovanna gridava. Perciò lei e il padre se ne andarono nell’altra stanza e rimasero a vestire Filippa, la madre, Margherita e Nella. Nella prendeva la biancheria dalla cassa, la madre le cambiava le scarpe, il più lo faceva Margherita. Quando Filippa fu vestita pareva quasi contenta, perché finalmente indossava il vestito bianco delle nozze e il velo. Aveva i capelli sciolti sulle spalle e i piedi anziché verso la porta, verso il balcone. Attorno, le candele. Potevano essere le dieci di sera, e la stanza era di nuovo piena come un uovo.
Tum mater fleta ac lacrimosa: La madre piangeva. “E ora a chi la do questa ricchezza di mia figlia? Io la tenevo come un tesoro. Quando uscivamo la tenevo sempre vicino a me. A chi la do questa ricchezza di mia figlia?” E si strappava i capelli, trattenuta dalle comari: “E chi lo doveva sapere che mia figlia sarebbe morta stasera? Fiato dell’anima mia, quando morì tua nonna, al cimitero tu dicevi: quanta gioventù si mangia questa terra! Chi te lo avrebbe detto che ci dovevi andare anche tu sotto terra?” Nella stanza c’era la donna che aveva prestato la bottiglia a Filippa. E la madre le diceva: “Tu ce la prestasti la bottiglia”. E quella rispondeva: “Chi poteva saperlo?” Così la notte avanzava fra lacrime e parole, e parecchi si ritirarono per dormire. Ma la folla era sempre tanta che un parente stava a guardia per non fare entrare tutti ad una volta. Verso mezzanotte arrivò il fratello sposato. Gli altri due fratelli, militari, arrivarono la domenica mattina. Quel giorno Giovanna aveva gli occhi lucidi, tanto che Nella le disse: “Tu di sicuro hai la febbre”.
I funerali avvennero verso mezzogiorno, e ci fu una bella messa di lutto, che qualcuno piangeva. Ma la madre non andò ai funerali, e le fecero compagnia Nella, Margherita, e l’infermiera del primo piano. Le altre amiche, più tardi, le portarono brodo e pasta, sei cotolette. E due bottiglie di vino. Nel lutto erano molti a mangiare, erano sette, cioè il padre e la madre della morta, la sorella Giovanna con suo marito e i tre fratelli maschi.
La mattina si portava solo latte e caffè, ma il pranzo ci voleva. Questo consolo si fa per tre giorni di seguito.

Finisce così il racconto della travagliata vita della giovane Filippa.

Antonio Ligato


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