I terreni confiscati alla criminalità organizzata e l’uso sociale degli strumenti di pianificazione

Giuseppe Caridi, Architetto e studioso dei fenomeni territoriali, Dottore di ricerca in “Pianificazione e progettazione della Città mediterranea” presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, offre ai lettori della Rubrica “Urbanistica e Città Metropolitana” le sue stimolanti riflessioni sulla problematica dell’uso sociale dei beni confiscati alla criminalità e sul ruolo sociale dell’urbanistica.

(E.C.)

I terreni confiscati alla criminalità organizzata e l’uso sociale degli strumenti di pianificazione

di Giuseppe Caridi

L’istituzione della “Città Metropolitana” reggina, e con essa la potente immagine simbolica della “Metropoli dello Stretto” di quaroniana memoria, rappresenta un’occasione di riflessione su alcuni temi cruciali dell’urbanistica, perché ci induce a guardare al territorio come un sistema complesso urbano-non urbano. In particolare, un tema centrale che ritengo vada posto in discussione riguarda l’approccio consolidato che, nel nostro ambito disciplinare come nella cultura sociale, considera ogni brano di terra vergine “in negativo” rispetto alla città, cioè una parte di suolo che ancora non è stata ancora edificata. Oggi è necessario ribaltare quest’ottica, puntando a pianificare e progettare l’insediamento proprio a partire dai “brani di terra” non edificati, che devono essere considerati non in termini parziali, ma appunto nella loro globalità di senso. Di conseguenza, ci dobbiamo occupare di diversi “brani di terra”: le aree dimesse, gli spazi pubblici urbani, gli spazi verdi interstiziali negli aggregati urbani, i brandelli agricoli periurbani della campagna terra nullius. In quest’ottica, il presente contributo punta l’attenzione su una questione estremamente delicata ma dal forte spessore simbolico, il riutilizzo dei terreni confiscati alla criminalità organizzata; un tema che peraltro si pone in stretta relazione con la prospettiva più ampia di un uso sociale degli strumenti di pianificazione.

La criminalità organizzata impone la sua presenza, anche, nel tessuto economico e sociale della campagna italiana (“agrocriminalità”) garantendosi, con iniziative illegali legate all’ambiente, un giro d’affari pari a 20,5 mld. di euro nel solo 2008 (Legambiente, Rapporto Ecomafia, 2010). L’azione di contrasto a queste attività condotta dallo stato da circa due decenni ha determinato la confisca e la successiva riconversione “legale” di consistenti patrimoni appartenuti a mafiosi. L’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC), ha reso nota la situazione al 1 novembre 2010: nella sola Calabria, risultano confiscati 1431 beni immobili. In breve, i beni confiscati vengono restituiti alla collettività attraverso cooperative sociali che svolgono attività produttive essenzialmente volte all’inserimento nel mercato del lavoro di persone svantaggiate. Attraverso questo percorso si restituisce alla collettività il capitale fisico della terra (il suolo) e si consente di generare un circuito legato alla responsabilità sociale ed all’inclusione nel mercato del lavoro delle fasce più deboli.

Ma queste pratiche assumono anche una valenza più generale, poiché permettono di evidenziare come il recupero della legalità può diventare un fattore cruciale per sostenere la diffusione di una concezione alternativa del suolo. Da qui, è immediato il riferimento al tema dei beni comuni, e alla sua specifica declinazione che riguarda, appunto, il suolo. La cultura sociale, dominata dall’ideologia di mercato posta al di sopra di ogni valore, ha progressivamente perduto ogni consapevolezza delle terribili conseguenze legate al considerare il suolo come l’ennesima merce. Il progressivo rafforzamento di questa concezione, per tutto il XX secolo, ha fatto saltare il “codice condiviso” che legava la territorialità, ossia il processo di costruzione del territorio basato sull’insieme di relazioni soggetto/ambiente, ad una peculiare visione del suolo come bene comune. Una visione cioè che, considerandolo un bene utile a soddisfare un bisogno collettivo primario, ne presupponeva un utilizzo ed una gestione collettiva. Per scardinare i processi che hanno contribuito a determinare l’attuale piegatura ideologica e culturale nei confronti del suolo, è necessario uno spostamento d’ottica e di prospettiva culturale: si deve tendere a recuperare l’originaria concezione del suolo come bene comune. Un’istanza che dovrebbe costituire un nodo centrale nel dibattito sui nuovi paradigmi per una società autenticamente consapevole e autodeterminata e, nello specifico ambito disciplinare dell’urbanistica, sui fondamenti epistemologici della pianificazione.

Poiché i “beni comuni” sono una classe di beni che si proiettano nell’esperienza sociale come presupposti di ogni forma di agire e insieme come esiti dell’interazione sociale, è necessario lavorare per mettere in primo piano l’intreccio fra processi di governo del territorio ed istanze che emergono dalle società insediate. E da qui, sedimentare una progettualità collettiva in grado di ridefinire il futuro del proprio lavoro e del proprio abitare.

Qui, va a mio avviso posto come obiettivo strategico l’uso sociale degli strumenti di pianificazione. Nella cassetta degli attrezzi della pianificazione e programmazione esistono molti strumenti. Da più parti si afferma che sono ridondanti e che producono un sistema complicato, farraginoso e contraddittorio; ma, soprattutto, che hanno esaurito la loro “carica euristica” di interpretazione e prefigurazione della realtà. Queste osservazioni sono certamente condivisibili; ma ritengo che è ancora possibile una reinterpretazione di tali strumenti, un loro utilizzo consapevole e soprattutto “creativo”, tale da contribuire ad aggredire il tema con esiti positivi. È questa la sfida dell’efficacia degli strumenti di piano nel nuovo millennio, che non è tanto legata a questioni tecniche – come lo è stata negli anni passati – quanto alla loro essenza politica ed alla possibilità di un loro uso sociale, in grado di riconsegnare alle comunità insediate capacità “creativa” (perciò progettuale) e di autodeterminazione.

Questa visione deve ad ogni modo basarsi sulla produzione di strategie operative ed azioni concrete. Provo qui a suggerire una linea di lavoro che, se adeguatamente sviluppata, può aiutare a sostanziare una diversa figura identificativa del suolo. Si deve prestare la massima attenzione agli strumenti “formali”, agli strumenti cioè che vengono affidati alle istituzioni territoriali locali: Regione, Provincia, Comuni. In questo contesto, obiettivo prioritario è ri-dare centralità alla pianificazione comunale. È a questo livello che trova maggior forza l’istanza del suolo come bene comune, perché i Comuni sono le istituzioni territoriali che hanno, per norma, il compito di definire le dinamiche “concrete” dell’insediamento e le modalità di uso del suolo. Una strategia che potrebbe rivelarsi utile, a questo livello, dovrebbe prevedere percorsi di premialità per quei comuni che hanno saputo destinare e riconvertire alla legalità i terreni confiscati. Ma più in generale dovrebbe essere incentivata la capacità dei Comuni di mettere in campo azioni basate su metodiche d’uso del suolo capaci di porre attenzione verso il tema dei beni comuni (ad esempio per i terreni demaniali, o per quelli di proprietà pubblica).

Mettere al centro la pianificazione istituzionale, ed in particolare quella di livello comunale, non significa rinunciare alle possibilità offerte dagli altri strumenti: va quindi prestata particolare attenzione alle possibili sinergie fra strumenti “formali” e strumenti “diversamente orientati”. Mentre, al contrario, vanno assolutamente combattuti quegli strumenti che tendono a mortificare la cogenza e la valenza strategica dei piani ed a espropriare gli abitanti della loro capacità creativa: tra questi, gli Accordi di Programma rappresentano probabilmente il peggiore esempio, in quanto strumenti che alterano, in maniere troppo disinvolta, la definizione delle modalità di uso del suolo.

Per concludere, i terreni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali contribuiscono a ricordarci che il diritto a definire le modalità di uso del suolo è comune: spetta a ciascuno di noi esercitarlo nell’interesse della collettività; dal modo in cui ciò è reso possibile si misura la qualità delle nostre vite. Perciò abbiamo bisogno di buona urbanistica.

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