Mallamaci (Sel) ricorda Italo Falcomatà a 11 anni dalla sua scomparsa: “Camminavamo, ma ci sembrava di volare”

Reggio Calabria. Quando arrivammo a Palazzo S.Giorgio, a fine novembre 1993, eravamo non solo scalzi e senza scorta, come diceva Italo. Eravamo, potremmo dire con un’espressione che ne mette insieme due oggi in voga, con le pezze sul lato b. Il commissario Daloiso, arrivato dopo che mezzo Consiglio comunale (in parte ingiustamente) era stato chiamato a visitare le patrie galere, e noto ai più per avere l’abitudine bizzarra di interloquire nella stanza del Sindaco col “ferro” sulla scrivania , aveva trovato qualche spicciolo di debito; e così, vestiti i panni del padre di famiglia inguaiato fino al collo, aveva messo in vendita la migliore mercanzia che aveva sotto mano: il Miramare e il patrimonio edilizio del Comune. Invero, non di qualche spicciolo si trattava, ma di 113 miliardi del vecchio conio! Nei 2 anni successivi, da me trascorsi a curare sport, verde pubblico, decentramento e lido comunale, mi dovetti industriare non poco per reperire qualche lira per fare il minimo indispensabile per non fare rimpiangere chi mi aveva preceduto; operazione, quest’ ultima, sinceramente più improbabile della parentela tra Ruby e Mubarak. Mi inventai perciò lo slogan “Il verde è al verde”, e cominciai a contattare associazioni, scuole, imprenditori, club service. In più, feci affiggere un manifesto con lo slogan bene in vista. Tutto questo per chiamare tutti i reggini di buona volontà, e anche di buona disponibilità finanziaria, alla cooperazione per la cura degli spazi pubblici. Grazie a questa intuizione, e alla collaborazione degli uomini della forestale e dei pochi superstiti dipendenti del verde pubblico del Comune, in poco tempo molte aree, compresa la via marina oggi lungomare Falcomatà, furono ripulite e curate come non succedeva da tempo immemore, e in giro per la città apparvero i cartelli (qualcuno resiste ancora) che segnalavano gli sponsor protagonisti dell’azione di recupero. Insomma, anche il Verde tornò a colorarsi di verde persino in estate, quando la mancanza di manutenzione e l’abbondanza di caldo rendevano la lotta impari e il verde giallo pagliericcio. E come non ricordare quanto fatto in quegli anni al Lido comunale, dove la torre Nervi e i negozi sottostanti furono per la prima volta aperti al pubblico, insieme alla passeggiata brulicante di reggini che avevano preso d’assalto quei luoghi, prendendo in affitto 120 cabine in più rispetto all’anno precedente. Ma, anche in questo caso, la peculiarità stava pure nelle “collaborazioni esterne” delle quali ci potevamo e dovevamo avvalere, considerate le ristrettezze nelle quali eravamo costretti a muoverci. Per tinteggiare le ringhiere del Lido, ad esempio, io chiamai due miei amici, Peppe Rotta e Franco Malavenda, che di buona lena, e “a gratis”, si misero pazientemente a fare tutto il lavoro. E come non ricordare il bagnino Tornatola, che in pochi giorni riparò e ridiede colore a tutte le porte delle cabine, danneggiate, come ogni santo anno, dagli ospiti invernali del Lido. E lo stadio? L’ing. Nino Romeo cumulava in sé cinque caratteristiche che lo rendevano particolarmente appetibile per dare una struttura decente alla Reggio calcistica: era mio amico; era, dal punto di vista tecnico, un appassionato di impianti sportivi; era un calciatore del quale si ricorda soprattutto l’impegno più che le doti tecniche (se lo legge mi uccide); era, ed è, tifoso patologico della Reggina; era, ed è, persona di grande spessore umano, capace di offrire alla città gratuitamente il progetto preliminare per l’indizione dell’appalto concorso per la ristrutturazione dello stadio. Fu così, grazie anche alla collaborazione dell’indimenticato Oreste Granillo, che riuscimmo ad appaltare l’opera senza onerosi incarichi di progettazione che avrebbero stuzzicato appetiti professionali. Come era avvenuto qualche anno prima, quando alla commissione impianti sportivi del Coni, al Foro italico, era arrivato un progetto di massima con in calce 14 firme, apposte nel corso di una infuocata riunione notturna di Giunta comunale da progettisti convocati in fretta e furia. Ci confidò allora il presidente della commissione che Reggio, in quella occasione, non ci aveva fatto una bella figura! Comunque, per farla breve, questo era lo stato delle casse comunali a quel tempo! Ed io mi sono limitato a citare qualche mio ricordo personale. Altri protagonisti di quella stagione, i vari Gigi Malluzzo, Totò Camera, Pino Falduto, Gianni Pensabene, Giuliano Quattrone, e via dicendo, potrebbero arricchire questa pagina di memoria con le loro esperienze. Dicevamo, quindi, che il Miramare e il patrimonio edilizio del Comune erano stati anche a quel tempo messi sul mercato. Ma, per fortuna di Reggio, sulla città si abbattè il ciclone super Italo, col suo seguito di giovani assessori e consiglieri comunali, supportati dall’esperienza di qualcuno più anziano, tra i quali Franco Azzarà. Italo era una formica industriosa, formatosi al Comune di Reggio, dal punto di vista amministrativo, nella commissione bilancio. Era capace di passare ore ed ore a chiacchierare con chiunque e di qualsiasi cosa. Anche nelle sedute del Consiglio comunale, non di rado, aveva la meglio sugli avversari per stanchezza, lui che era in grado di stare inchiodato alla sedia dalle sei di pomeriggio alle sei della mattina seguente senza un minimo cedimento. Di tanto in tanto ruotava la testa da una parte e dall’altra per dare sollievo al collo, ma le sue bretelle rosse erano lì piantate a dare sicurezza a noi e ad incutere rispetto a tutti gli altri. E dopo tornate di Consiglio sfiancanti e spesso vittoriose, lui era il primo a volere andare a godersi il post dibattito in qualche pub a mangiare e bere, anche a notte fonda; spesso, insieme a noi, c’era il più strenuo e preparato oppositore, Antonio Franco; tra una birra e l’altra, ci si confrontava serenamente sulle scelte compiute e su quelle da compiere, ma si rideva anche e si scherzava, come tra vecchi amici. Italo annunciò subito, al primo intervento da sindaco in Consiglio, che i beni del Comune non sarebbero stati alienati. Non disse “cercheremo di non vendere”. Disse proprio “non venderemo”, con la sicurezza e la consapevolezza che solo un grande è in grado di mostrare. Fatto sta, che a queste parole, accolte con stupore da molti di noi e dalla gran parte degli addetti ai lavori, seguirono i fatti. Si gettò a capofitto nella preparazione del bilancio preventivo. C’erano ore della giornata in cui alcuni di noi sapevano dove trovare Italo, ma sapevano anche che non lo si poteva disturbare per nessun motivo: era all’ufficio ragioneria, dove, col responsabile di allora e con l’assessore al bilancio Mimì Pellicanò, passava letteralmente al setaccio ogni singolo capitolo del bilancio, le sue pieghe più nascoste e più profonde. Un lavoro certosino, maniacale, eroico, grazie al quale ogni lira di spreco veniva individuata ed eliminata. Nello stesso tempo, però, Italo aveva aguzzato il suo ingegno e la sua perizia di Storico, e aveva individuato il punto debole della norma che allora autorizzava, e addirittura, se la memoria non mi inganna, incoraggiava i Comuni ad alienare il proprio patrimonio edilizio. Invero esso, a Reggio, aveva una peculiarità che rendeva la nostra città diversa dalle altre: era stato realizzato, in gran parte, per dare risposte abitative al terremoto del 1908, e quindi non poteva essere sic et simpliciter essere assimilato a quello delle altre realtà urbane italiane. Oltretutto Italo, da uomo della sinistra, si poneva il problema dal punto di vista sociale. Come era possibile mettere in vendita la casa, spesso l’unica casa, delle persone, senza prevedere alcun ammortizzatore che scongiurasse il pericolo reale che i conduttori non in grado di acquistare finissero in mezzo a una strada? In ogni caso, la partita finì come Italo aveva previsto. La Giunta “nata col sorriso sulle labbra”, guidata dal condottiero che tutti rimpiangiamo, riuscì nell’impresa di evitare la vendita dei gioielli di famiglia. Grazie alla capacità amministrativa e al sostegno della popolazione, e soprattutto della sua parte migliore che entrò a far parte integrante del sogno nato in un afoso pomeriggio del luglio 1993 (di questa fase embrionale parleremo un’altra volta, magari), il bilancio fu risanato. Nel contempo, con le poche a risorse a disposizione (ad esempio, il verde pubblico disponeva di 100 milioni di lire per un anno intero), la primavera di Reggio cominciò a dare i primi, visibili frutti. Certo, io andavo in giro con la mia 500 rossa e non con la macchina blu con l’autista, e pensare di avere un consulente o un esperto profumatamente retribuito era un’idea che neanche ci sfiorava. Tanti erano, al contrario, gli esperti e i consulenti che offrivano la loro opera gratuitamente. Insomma, ci si avvicinava al Municipio, alla Casa dei cittadini, per dare, e non per avere (rectius: per arraffare). Eravamo, nel nostro piccolo, riusciti a traslare il motto di John Kennedy dall’America degli anni sessanta alla Reggio degli anni 90, e tutti si chiedevano che cosa avrebbero potuto fare per la città, prima di chiedersi che cosa essa avrebbe potuto fare per loro. Quando, di notte, andavamo in giro con la mia 500, io alla guida, Italo accanto, Totò Camera sul sedile posteriore, a seguire gli autocompattatori per controllare che la raccolta dei rifiuti fosse fatta nel migliore dei modi, eravamo coscienti di stare facendo semplicemente il nostro dovere. E quando nel settembre del 1994 entrammo al Duomo, dietro alla Madonna, il nostro condottiero in testa, sentii, per la prima e unica volta, da ateo quale ero e sono, un brivido che somigliava a qualcosa di soprannaturale. Percorrevamo la navata centrale della Cattedrale, tra due ali di folla che applaudivano e si avvicinavano a Italo per toccarlo e stringergli la mano. Camminavamo da qualche ora sotto il sole, ma mai un così lungo percorso fu meno faticoso. Camminavamo, è vero. Ma ci sembrava di volare.

Nino Mallamaci
Circolo Sel “De Angelis”

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