A proposito delle riflessioni avanzate da Francesco Alì sul problema della riforma elettorale e del referendum, che condivido in pieno, voglio aggiungere qualche veloce considerazione per alimentare il dibattito.
In una lettera, pubblicata il 2 febbraio (2006) sul quotidiano “La Repubblica”, ho sostenuto la tesi secondo la quale la previsione di liste di partito bloccate che non consentono al corpo elettorale la scelta dei candidati rappresenta, se non sul piano giuridico certamente su quello politico (ma ci troviamo in una zona ‘grigia’ del diritto costituzionale, ai confini tra diritto e politica), l’introduzione di un mandato imperativo in evidente contrasto con l’art. 67 della nostra Costituzione, che come è noto prevede per il parlamentare la massima libertà possibile sintetizzata nella formula secondo la quale egli “rappresenta la Nazione”. Ma l’art. 67 Cost. è legato direttamente all’art. 1 che affida al popolo la titolarità e l’esercizio, nelle forme previste dalla Costituzione e quindi soprattutto attraverso l’istituto elettorale, della sovranità.
A sostegno della mia tesi ho citato uno dei più importanti costituzionalisti italiani del Novecento, il calabrese Costantino Mortati che, con la prudenza resa necessaria dalle circostanze (il testo ricordato è del 1931 L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano), sosteneva che, all’indomani della approvazione della legge 2 settembre 1928 n. 1993 che affidava la scelta dei candidati alle grandi organizzazioni economiche e al Gran Consiglio del Fascismo, si fosse introdotto un mandato imperativo. Mandato imperativo che si collocava in quella tendenza (avallata dai giuristi di regime e non) della forma di governo parlamentare ad ‘evolversi’ verso forme di accentramento sempre più autoritario del potere nelle mani del governo e del Capo del governo in particolare.
Ma oggi quale può essere la ratio di una simile previsione? Non si dovrebbe affermare invece la esigenza di una maggiore partecipazione alla luce della più generale crisi delle odierne democrazie che è crisi innanzitutto di rappresentanza, di patologia del rapporto rappresentativo tra un cittadino sempre più deresponsabilizzato e una classe politica sempre più autoreferenziale? Come rispondiamo a questa crisi? Allontanando ancora di più elettore ed eletto, rappresentato e rappresentante? È possibile nel contesto politico italiano, caratterizzato da un sistema partitico dai tratti personalistici, oligarchici e centralistici, affidare ai partiti la composizione del Parlamento? Come si garantisce, chi garantisce la democrazia interna ai partiti intesi come indispensabili soggetti della politica? Non si dovrebbe ritornare a considerare i partiti, non solo chiusi nella dimensione del potere e quindi della mera distribuzione di incarichi e di vantaggi per le loro clientele, ma come i mediatori politici degli interessi nella prospettiva del bene comune?
Una legge elettorale come la nostra, lungi dal rappresentare un rimedio, contribuisce ad un processo degenerativo del sistema politico e democratico che rende e renderà difficile qualsiasi operazione di riforma istituzionale.
Ecco perché è indispensabile rimuoverla dal nostro ordinamento.
Prof. Mario Sirimarco
Docente di Teoria generale del diritto
Università di Teramo