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Home Reggio Calabria Cronaca

Operazione Porto Franco: tutti i dettagli sui 13 arresti della Guardia di Finanza

by newz
21 Ottobre 2014
in Cronaca, Primo Piano
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Operazione Porto Franco: tutti i dettagli sui 13 arresti della Guardia di Finanza
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Reggio Calabria. Dalle prime luci dell’alba, i Finanzieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria, con l’ausilio di appartenenti allo Scico di Roma, stanno effettuando numerose perquisizioni ed eseguendo in Calabria, Lombardia e Veneto un’ordinanza di custodia cautelare, emessa su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, nei confronti di 13 persone, tra cui imprenditori a vario titolo accusati di essere collegati alle locali cosche di ‘ndrangheta, nonché il sequestro di 23 società per un valore complessivo di circa 56 milioni di euro.

Con il provvedimento cautelare, emesso dal gip presso il Tribunale di Reggio Calabria, le Fiamme Gialle stanno procedendo nei confronti di presunti esponenti di due cosche reggine di ‘ndrangheta (la cosca Pesce e la cosca Molè, invero uno solo degli indagati è accusato di essere legato a quest’ultima cosca), indagati a vario titolo di associazione per delinquere di stampo mafioso nonché dei reati di riciclaggio di proventi di illecita provenienza, di trasferimento fraudolento di valori, contrabbando di gasolio e di merce contraffatta, di frode fiscale, attraverso l’utilizzo e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e di omesso versamento delle ritenute previdenziali, tutti aggravati dalle modalità “mafiose”.

Le complesse e articolate attività di polizia giudiziaria traggono spunto dall’esecuzione di verifiche fiscali avviate nei confronti di imprese operanti nel settore dei trasporti e servizi connessi da e per il Porto di Gioia Tauro, nel corso delle quali sono stati acquisiti concreti e significativi elementi indiziari circa la riconducibilità dei relativi titolari alle due cosche di ‘ndrangheta.

L’indagine ha dimostrato come la cosca Pesce si è infiltrata nel tessuto economico caratterizzato dai servizi connessi all’imponente operatività del porto di Gioia Tauro – che oltre a costituire una delle porte di ingresso in Europa rappresenta uno snodo cruciale dell’economia calabrese – ed esercita tuttora un soffocante controllo sulle attività economiche presenti nella zona portuale, dirette ad assicurare all’organizzazione, in ultima analisi, ingenti risorse finanziarie, mirando poi a ripulire i proventi dei reati consumati, grazie anche all’ausilio di soggetti estranei.

La complessiva attività di indagine ha consentito di portare alla luce l’ingegnoso e asfissiante sistema di controllo dei servizi connessi alle operazioni di import-export e di trasporto merci per conto terzi realizzato dalle suddette cosche nel porto di Gioia Tauro, la cui estensione ricade in ben due comuni, San Ferdinando e Gioia Tauro, nonché di ritenere provata l’appartenenza all’organizzazione criminale di stampo mafioso di soggetti, fino ad ora non coinvolti in altre operazioni di polizia.

Si tratta di tutti i preposti alla gestione delle imprese dell’organizzazione che, sempre secondo l’accusa, hanno rivestito un ruolo determinante dapprima nell’acquisizione dei proventi di attività estorsive, perpetrata attraverso l’imposizione a imprese terze dell’obbligo di contrattare esclusivamente con loro, facendo leva sulla forza intimidatrice di cui disponevano. Infatti, come tutte le organizzazioni di stampo mafioso attualmente operanti, la caratteristica della cosca Pesce consiste nella circostanza che, a causa della “fama” acquistatasi nel tempo con atti di violenza o minaccia a danno di chiunque ne ostacoli l’attività, è ormai in grado di incutere timore per la sua stessa “esistenza”.

Successivamente il ruolo di dette aziende e, quindi, dei rispettivi rappresentanti legali è stato quello di crearsi disponibilità di risorse liquide, attraverso la contabilizzazione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, da corrispondere agli elementi di spicco delle cosche Pesce e Molè.

Le persone intranee alla “cosca”, sfuggite alle precedenti operazioni, hanno assunto compiti e incarichi attinenti agli interessi dell’organizzazione, sia economici ovvero di infiltrazione e controllo del tessuto imprenditoriale del territorio di influenza con particolare riguardo ai servizi connessi al traffico commerciale generato dal Porto, che finanziari di acquisizione sicura dei relativi proventi, mediante l’attuazione di sopraffine tecniche di riciclaggio.

Ciò è stato reso possibile sia attraverso fittizie intestazioni di società a persone terze, direttamente riconducibili ai vertici della cosca “Pesce” sia mediante il ricorso all’utilizzo di fatture false emesse prevalentemente da distributori stradali e da società cooperative nei confronti delle aziende di trasporto riconducibili alla cosca “Pesce”.

In particolare è stato dimostrato che i distributori di carburante non erano i veri beneficiari degli assegni, ma si limitavano a monetizzarli, in quanto la relativa provvista veniva incassata da esponenti di primo piano della cosca.
Tale modus operandi, grazie alla liquidità di cui dispongono normalmente i distributori al dettaglio di carburante, ha consentito all’organizzazione di acquisire concretamente i proventi dell’attività illecita, di dare agli stessi la parvenza di una lecita attività commerciale (acquisto di carburante) e di ottenere l’immediata liquidità attraverso il cambio del titolo operato dai distributori, di modo che non venissero identificati i reali beneficiari dei titoli stessi.

In più, le indagini hanno consentito di appurare che la cosca Pesce ha perseguito e consumato anche reati di contrabbando, consistenti nell’importazione di merce contraffatta dalla Cina in evasione di dazi e diritti doganali.

Infine, gli approfondimenti investigativi eseguiti nei confronti delle aziende di trasporto riconducibili alla cosca “Pesce”, alcune delle quali operanti nel Nord Italia, in particolare a Verona, hanno evidenziato l’utilizzo di imprese cooperative che si sono interposte tra esse e i clienti finali. Infatti, le cooperative di lavoro hanno avuto quale unico scopo quello di fornire uno schermo giuridico alle imprese della “cosca”, le quali – una volta “esternalizzati” i propri lavoratori, facendoli solo formalmente assumere dalle cooperative, e fittiziamente ceduto in comodato i mezzi d’opera alle stesse – hanno continuato a operare direttamente non preoccupandosi più del pagamento degli oneri erariali che gravavano interamente sulle false cooperative. Le stesse cooperative hanno successivamente fatturato alle imprese beneficiarie della frode prestazioni di servizi, simulando inesistenti contratti, e così consentendo loro la fraudolenta contabilizzazione dei relativi costi ed Iva a credito.

Le cooperative di lavoro si sono rivelate società di fatto inesistenti, interposte al fine di caricarsi tutti gli oneri impositivi (in termini di II.DD. ed IVA dovuta), contributivi e previdenziali che, come acclarato, non sono stati mai assolti Infatti, le predette cooperative erano di fatto “scatole vuote” che hanno cessato l’attività dopo breve tempo e i loro rappresentanti sono risultati prestanome nullatenenti.

L’indagine portata a termine dalle Fiamme Gialle reggine denota, ancora una volta, un moderno quadro dell’imprenditoria ‘ndranghetista” e un nuovo modo di “fare mafia”, dove, non creando allarmismi sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica, si creano vincoli di affiliazione derivante da un’unica matrice: il denaro e l’ingiusto arricchimento. Tutto questo con una totale trasposizione delle consuetudinarie modalità mafiose nel mondo dell’imprenditoria e dell’economia legale falsando il libero mercato e la leale concorrenza tra imprese.

In conclusione, il condizionamento dei settori più produttivi dell’economia locale, prima affidato solo ai proventi delle estorsioni a tappeto, si è trasformato, giovandosi del processo di modificazione delle locali famiglie di ‘ndrangheta, che hanno acquisito una vocazione direttamente imprenditoriale e che operano trasversalmente, quasi sempre dietro il paravento di prestanome, direttamente nei singoli settori economici infiltrati.

Sulla scorta dei gravi elementi indiziari raccolti, in data odierna, sono stati eseguiti in Calabria, Veneto e Lombardia i seguenti provvedimenti, emessi dall’Ufficio gip del Tribunale di Reggio Calabria:

13 ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di:

  1. Salvatore Pesce cl.’ 88;
  2. Gaetano Rao cl.’ 55;
  3. Marco Mazzitelli cl.’ 83;
  4. Giuseppe Comandè cl.’ 83;
  5. Domenico Franco cl.’ 57;
  6. Giuseppe Franco cl.’ 60;
  7. Antonio Franco cl.’ 62;
  8. Francesco Rachele cl.’ 41;
  9. Salvatore Rachele cl.’ 78;
  10. Rocco Rachele cl.’ 68;
  11. Bruno Stilo cl.’ 66;
  12. Domenico Canerossi cl.’ 67;
  13. Nicola Filardo cl.’ 59;

23 sequestri preventivi dell’intero patrimonio aziendale nei confronti di altrettante ditte.

Conclusivamente, nell’operazione “Porto Franco” si è proceduto all’esecuzione di 13 ordinanze di custodia cautelare in carcere, al sequestro del patrimonio aziendale di 23 imprese per un valore stimato di circa 56 milioni di euro e ad effettuare circa 50 perquisizioni, con l’impiego di oltre 200 militari della Guardia di Finanza.

Da sinistra: il colonnello Alessandro Barbera, il procuratore capo Federico Cafiero De Raho, il procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza
Da sinistra: il colonnello Alessandro Barbera, il procuratore capo Federico Cafiero De Raho, il procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza

Da sinistra: il tenente colonnello Domenico Napolitano, Barbera, Cafiero De Raho
Da sinistra: il tenente colonnello Domenico Napolitano, Barbera, Cafiero De Raho
Il procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza e il tenente colonnello Luca Gennaro Cioffi
Il procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza e il tenente colonnello Luca Gennaro Cioffi



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