Reggio Calabria. E’ in edicola da una decina di giorni il n. 143/144 luglio-dicembre 2014 di Calabria Sconosciuta, la cui copertina riportiamo tra le immagini in galleria.
In anteprima per i lettori di newz.it proponiamo integralmente un articolo dell’ultimo numero della rivista. Si tratta dell’ottimo racconto del prof. Carmelo Neri, catanese, dal titolo “Un soggiorno in Calabria fra i tanti inesplicabili misteri del caso Majorana”. Ultimamente sono state dichiarate chiuse le indagini sulla sparizione di Ettore Majorana, resta però un sottile filo che lega questo caso con la Calabria.
Un soggiorno in Calabria fra i tanti inesplicabili misteri del “caso” Majorana
Carmelo Neri
Trascorsi più di settantacinque anni da quando Ettore Majorana, docente di Fisica teorica presso l’Università di Napoli, sembrò svanire nel nulla, non si è ancora riusciti a chiarire parecchi misteri legati alla sua tragica scomparsa. Tutto ebbe inizio il 25 marzo 1938: il giovane professore (era nato a Catania nel 1906), maturata la decisione di abbandonare l’insegnamento e di togliersi la vita, s’imbarcò su un piroscafo in partenza dalla città partenopea e diretto a Palermo; due giorni dopo, non avendo avuto il coraggio di attuare il suo proposito (scrisse: «il mare mi ha rifiutato»), rientrò a Napoli e, recatosi presso la Chiesa dei Gesuiti, detta “del Gesù Nuovo”, domandò di essere accolto in un ritiro «per un esperimento di vita religiosa»: insoddisfatto del colloquio (pare che gli abbiano domandato se desiderasse prendere gli ordini)1, preferì allontanarsi, e s’incamminò senza una meta e in fretta per sottrarsi alle indagini che le autorità stavano per avviare.
Proseguì verso il sud dell’Italia, con l’animo costernato, col rammarico di aver dato un immenso dispiacere ai propri cari, e con la certezza del suo cattivo stato di salute. Dapprima fu segnalato nelle campagne del Cilento, e i familiari ne tentarono la ricerca, anche con l’intervento della polizia; nel mese di ottobre 1938 si venne a sapere che si trovava in un “piccolo paese” nei pressi di Catanzaro. Suo fratello Salvatore, partito subito da Roma col cugino Fausto Roncoroni per rintracciarlo, nel corso del viaggio apprese soltanto, e la notizia parve veritiera, che era accolto da alcuni pastori “in un vallone boscoso”2 nella medesima provincia. Il viaggio in Calabria durò quattro giorni, come risulta dal diario di Oliviero Savini Nicci, zio dello scomparso: «Mercoledì 26 ottobre 1938… Questa sera parte Fausto per la Calabria e va con lui Turi di Dorina in quanto si sono avute voci che Ettore si sia rifugiato in un piccolo paese in Prov. di Catanzaro.» – «Domenica 30 ottobre … Verso le 18 è arrivato Fausto in auto. Torna dalla Calabria ove è stato con Turillo di Dorina sulle traccie di Ettore che hanno molti elementi di attendibilità. Dimorerebbe in un vallone boscoso in provincia di Catanzaro, ospite di pastori. Ma ancora nulla di concreto…».
Il fuggitivo, che portava con sé una discreta somma di denaro, era ben consapevole che non gli restasse molto da vivere, e fra le cause che possono indicarsi all’origine dei suoi guai fu quanto gli accadde cinque anni prima in Germania, dove era giunto il 20 gennaio 1933 in “ottima salute”. Proprio in quel periodo si manifestarono i primi sintomi di una sua malattia, dovuta forse all’uso eccessivo di un medicinale di cui allora si ignorava la pericolosità; trovandosi ancora a Lipsia, soffrì per alcune settimane di “disturbi seri” allo stomaco (in una lettera al padre, in data 21 luglio 1933, accennò a una “dispepsia”),3 e analoghi disturbi si presentarono in Italia negli anni successivi. Si parlò anche di ulcera, di gastrite, e non si può escludere qualcosa di più grave: le cure, affrontate con i rimedi poco efficaci di quel tempo, non furono risolutive, e rafforzarono in lui il convincimento che si trattasse di una condizione morbosa che lo avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni. Ciò si arguisce anche da quanto si legge nello Stato matricolare 4 da lui stesso compilato il 20 gennaio 1938 (due mesi prima della scomparsa); in tale documento, previsto per l’immissione nell’impiego statale 5, s.v. “Salute”, annotò: “alquanto cagionevole”, e, con significato opposto a quello normale di “un poco”, intendeva dire di essere “molto soggetto ad ammalarsi”. Osserva il linguista Aldo Gabrielli che in certi dialetti meridionali, sbagliando, si è soliti adoperare “alquanto” col valore di “molto”; tale uso scorretto fu registrato anche da Filippo Ugolini nel suo Dizionario di parole e modi errati (1859), senza distinguere fra nord e sud: «ALQUANTO, per molto, non debbe usarsi». Che Majorara attribuisse ad “alquanto” significato di “molto” è confermato dall’uso che ne fece in una lettera inviata il 1° settembre 1937 allo zio Quirino, da Monteporzio Catone: «Mi dispiace solo di essere stato alquanto male e di non essere potuto venire a vederti durante la tua permanenza in clinica.»6
La precarietà dello stato di salute senza dubbio è da mettere in relazione con la sua morte nell’estate del 1939, e molti indizi (che formano la prova) inducono a collocarla in tale anno, in preciso accordo con quanto è scritto nel volume Ettore Majorana, lo scomparso e la decisione irrevocabile di Stefano Roncoroni, questo lavoro, impreziosito da ricca documentazione, e da numerosi inediti (compresi alcuni di Ettore), ha procurato all’autore severe censure anziché riconoscenza per il bene compiuto. Si afferma che la soluzione proposta “non convince”, e non si tiene conto che l’intricatissimo “caso” è stato reso di difficile interpretazione non solo da quanto fu ordito nell’ombra, ma anche dal ricorso ad appositi depistaggi per ostacolare la conoscenza del vero; con tali accorgimenti si è raggiunto lo scopo di evitare moleste curiosità, nonché la diffusione di dicerie calunniose e pregiudizievoli per il buon nome della famiglia. Soprattutto si volle impedire con ogni mezzo che la madre, Dorina Salvatrice Corso, avesse certezza della morte del figlio, assecondando forse un desiderio espresso da quest’ultimo. Un’ulteriore prova (indiretta) della morte di Ettore avvenuta prima che venisse a mancare sua madre è in queste parole, ricavate da un articolo su un periodico catanese7: «All’annuncio della morte della madre, Luciano [il secondo fratello del grande scienziato – ndr] ebbe a dire: “Ora saprà che fine ha fatto Ettore…”. Era il 1966 ed erano passati ben 28 anni …anni nei quali la verità sulla sorte del figlio non fu palese ad una madre inconsolabile oppure fu tenuta nascosta.».
Lo zio Giuseppe, residente a Catania, della cui Università era stato rettore, quale esponente più anziano e più autorevole della famiglia, alla fine del 1939, quando Ettore non era più fra i viventi, approntò una narrazione addomesticata dell’accaduto da divulgare. Il suo manoscritto8 concepito in forma di “circolare” per uso interno, come si deduce da queste parole: «La storia della scomparsa sarebbe la seguente…» – «Dai fatti su esposti dovremo dire…»9, fu poi spedito per conoscenza, e con facoltà di apportarvi modifiche, ai capifamiglia Majorana, che abitavano in varie parti d’Italia.
Parecchi anni dopo Stefano Roncoroni, nipote di Elvira Majorana, fu informato da suo padre Fausto di qualcuno dei segreti che non bisognava rivelare, e Salvatore, che di ciò ebbe percezione, non ha potuto negargli che Ettore era stato “rintracciato”10 nel corso di uno dei suoi viaggi in Calabria effettuati in macchina (una FIAT 514) in compagnia del cugino Fausto, il solo a guidare e il solo provvisto di patente. In seguito non volle rendere noti i particolari di tali incontri, e di altro a sua conoscenza; ma un giorno, richiesto da Stefano di procurargli alcuni documenti, fra le carte consegnate fornì una fotocopia dell’ormai famosa lettera del gesuita padre Ettore Caselli, a lui indirizzata il 22 settembre 193911, in cui si dava per certa la morte di Ettore. In essa l’espressione «atto generoso», che è nell’incipit («Ammiriamo sinceramente il V. atto generoso per il compianto Ettore Majorana. Il Signore premi la V/. grande fede e il Vostro santo affetto per il caro estinto»), sembra riferita alla felice conclusione di precedenti accordi, che, se ci sono stati, prevedevano una benevola assistenza dei Gesuiti nell’incresciosa situazione in cui la famiglia Majorana era venuta a trovarsi; del resto appare ingiustificato l’esborso di una somma di Lire 20.000 con il solo corrispettivo della partecipazione al “Tesoro Spirituale” di un gran numero di messe e di preghiere, e con l’intestazione di una “borsa di studio”. Non possono pertanto escludersi vantaggi di altro genere correlati alla donazione.
È poi doveroso osservare che nella rivista «Missioni» del 3 novembre 1939, in cui si diede avviso dell’avvenuta fondazione della Borsa, forse per una rettifica voluta da Salvatore (quel fascicolo arrivava anche a casa loro, e poteva finire in mano alla madre), si parlò di intestazione allo “scomparso Ettore Majorana”, cosicché per il comune lettore fu impossibile capire se, parlando di “scomparsa”, quel termine ambiguo riguardasse una persona defunta o piuttosto una persona ancora in vita. Lo stesso Salvatore cercò di convincere Stefano Roncoroni che egli nella sua lettera aveva fatto cenno solo di fratello “scomparso”, e che quel religioso, per equivoco, aveva pensato che si trattasse di fratello “deceduto”. Inoltre, non richiesto, aggiunse che «padre Caselli aveva usato, per non ripetersi, dei sinonimi non appropriati»,12 dando così prova di scarsa credibilità: in quel foglio l’aggettivo “scomparso” non esiste, e non vi era alcun motivo di evitarne la ripetizione.
Esiste per contro un altro indizio, finora ignorato e abbastanza valido, che dimostra rispondenti al vero le parole “compianto” e “caro estinto” adoperate da Caselli; è infatti ben noto che fu promesso un premio di lire 30.000 a chi avesse dato notizie utili per il ritrovamento di Ettore, e pertanto non è ragionevole pensare che, mantenendo ancora esigibile la somma suddetta, la famiglia potesse privarsi di altre 20.000 lire per la borsa di studio sopraindicata. Si trattava di importi rilevanti, non facili da reperire, e appare chiaro che solo la sopravvenuta morte del ricercando ha eliminato l’eventualità di dover pagare codesto premio. Quel denaro per due terzi fu poi destinato ai Gesuiti, coi quali i Majorana già da molti anni erano in ottimi rapporti; cosicché è lecito ipotizzare che fra loro sia avvenuto un cordiale scambio di favori, che rendeva l’accennato “atto generoso” una larvata forma di ricompensa per aver ricevuto, con la dovuta riservatezza, un aiuto o la promessa di un aiuto (ad es. la messa a disposizione di un loculo) ben più concreto dei “vantaggi spirituali” indicati nella lettera.
Tornando al libro di Roncoroni, è da notare che fra le più interessanti notizie è anche quella che Ettore, quando incontrò il fratello, non volle più saperne di rientrare a casa, e ciò non può sorprendere, soprattutto se il suo stato di salute era peggiorato, e divenuto tale da far temere il peggio; in questo caso, non restò che prendere atto della sua volontà, e di certo Salvatore tornò a trovarlo, assicurandogli ogni conforto possibile. Quando non ci fu più alcuna necessità di far continuare le ricerche, si intervenne per farle cessare: il 22 aprile 1939 Ettore «fu cancellato dai controlli alla frontiera», e la polizia smise di «cercarlo in Italia a metà del 1939».13
È evidente che fu così disposto solo dopo che i familiari, che avevano ottime aderenze presso i più alti funzionari dello Stato, comunicarono il ritrovamento e la ripresa di normali contatti, o piuttosto la morte del loro congiunto. Avvenuto il decesso, forse in Calabria o forse in Sicilia, è logico pensare che i fratelli Salvatore e Luciano abbiano provveduto con la massima segretezza a far tumulare il defunto nella sua terra natia. A tal proposito, circa cinquanta anni fa, si parlò14 di Ettore Majorana sepolto sotto falso nome «in un loculo dei padri gesuiti», nel cimitero di Acireale.
Note
1. Stefano Roncoroni, Ettore Majorana, lo scomparso e la decisione irrevocabile, Roma 2013, p. 81.
2. Ibidem, p. 291.
3. Nel Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, edizione 1933, s.v. “dispepsia” , si legge: «Malattia dello stomaco che produce difficoltà nel digerire (con inappetenza, nausea, mal di stomaco, ecc.)».
4. La riproduzione dello Stato matricolare, annessa al presente articolo, è stata ricavata dal sito
5. Si noti che Ettore Majorana fu assunto come dipendente statale pur essendo privo dell’importante requisito della “sana e robusta costituzione”.
6. Erasmo Recami, Il caso Majorana – Con l’epistolario, documenti e testimonianze, Milano 1991, p. 160.
7. Cfr. Rivista Il Piccolo letterario di Catania, Anno III – n. 13 – Catania, luglio/agosto 2014, p. 9.
8. S. Roncoroni, cit. , pp. 51-92.
9. Ibidem, p. 69 e 77.
10. Ibidem, p. 21.
11.Il fac-simile di codesta lettera è riprodotto anche nel sito: misteridiassisi.it/saggio-di-stefano-roncoroni-su-majorana-documento1/. La trascrizione completa è stata inserita in un analogo articolo dello scrivente su “Incontri” – Anno II, n. 6, gennaio-marzo 2014, pp. 74-5..
12. S. Roncoroni, cit., p. 296.
13. Ibidem, p. 298.
14. Mario Grasso, Testi e testimonianze, Udine 1975, p. 388. Vi si legge: «Secondo Salvo Bella i resti mortali di Ettore Majorana si trovano in un loculo dei padri gesuiti di Acireale, città dove il celebre fisico morì nel 1967 sotto il falso nome di Francesco Magrì».