Carla Maione, urbanista e dottoranda in Pianificazione Territoriale, ha visitato “Segni della città che c’era…”, Mostra di reperti architettonici ed elementi decorativi fra sette e novecento, “sopravvissuti” al terremoto del 1908, dislocata in parte all’aperto, lungo il Coso Garibaldi, ed in parte all’interno dello spazio espositivo di Villa Zerbi sul Lungomare di Reggio Calabria, ed in questo articolo mette in luce, per i lettori della nostra rubrica online, elementi fortemente identitari della città che sarà “il cuore” di Reggio Città Metropolitana, oltre che un metodo di lettura del passato meno antico che potrebbe riverberarsi sull’intero territorio metropolitano.
(E.C.)
Con “Segni della città che c’era…” la Città si fa Museo, il Museo si fa Città
di Carla Maione
“Segni della città che c’era…” è il tema dell’insolito ma intrigante percorso espositivo allestito sul Corso Garibaldi di Reggio Calabria (miracolo delle pedonalizzazioni nei centri urbani!), collocate in eleganti teche di plexiglass si trovano otto installazioni con colonne tufacee doriche neoclassiche, fregi, stemmi e reperti storici come testimonianza tangibile del passato archeologico e postclassico, dall’età medievale fino all’epoca del post-terremoto, che ormai da metà gennaio arricchiscono la passeggiata domenicale, e ci raccontano la matrice e l’identità storica di una Civitas ieri e di una Città Metropolitana oggi.
Sono preziose testimonianze “lapidee”, spesso decisamente raffinate, che ci raccontano del decoro edilizio ed urbano, e non solo, che rispecchiano l’antico fascino di una città più volte distrutta dai terribili eventi calamitosi, l’ultimo quello del 1908.
Un “decoro” che, purtroppo, la città di oggi, sia pure con i linguaggi del secondo Novecento, non ha saputo riproporre ai contemporanei, né può riproporre alle nuove generazioni.
Ma potrebbe farlo, solo che lo volesse, cambiando la politica urbanistica, passando dall’urbanistica delle quantità all’urbanistica delle qualità. ed allora “Segni della città che c’era…” si rivelerà non una fiera delle vanità, una delle tante mostre, ma un’intuizione fondativa per una costruzione collettiva dei “Segni della città che ci sarà”.
Percorrendo il tracciato delle otto teche, intuisci che il filo rosso fra passato e futuro, sia pur sottilissimo, esiste ancora (te ne accorgi dall’espressione di giovani ed anziani, delle coppie con bimbi in carrozzina di fronte alle teche sul corso), e che territorio e memoria sono in simbiosi, memorie e vissuti appartenenti al passato, si sovrappongono a memorie del presente. E sappiamo che uno dei principali strumenti che avallano il processo di costruzione delle identità individuali e collettive è la memoria, memoria come consapevolezza dell’esistenza di un complesso patrimonio locale, materiale e immateriale, strettamente legato al territorio, la memoria o il ricordo è ciò che rende una persona felice o infelice di abitare in un certo luogo, effettivamente le persone si sentono a casa in un luogo quando quel luogo evoca delle storie e, viceversa, le storie servono a creare dei luoghi.
La memoria esposta e rievocata “a cielo aperto” – in uno straordinario gioco culturale con il quale “la Città si fa’ Museo ed il Museo si fa’ Città” –, collega gli individui al luogo come un cordone ombelicale che ritroviamo nei percorsi della vita, dove l’intensità della memoria del territorio non si è persa. Dare un senso alle “cose” che furono, e come ricomporre i frammenti di un puzzle infinito, che una volta ricomposto, ci restituisce l’immagine fantastica del nostro essere di ieri, di oggi e di domani. Il concetto di territorio ha un destino simile a quello di cultura, sono tutti prodotti dell’azione e del pensiero umano e si articolano in almeno tre dimensioni spazio, paesaggio e patrimonio.
Sotto l’impulso delle sfide culturali ed economiche imposte dal fenomeno della globalizzazione dagli anni Novanta in poi, il patrimonio storico sposa le politiche urbane e territoriali, proprio per l’insieme multiplo di valori che incarnano e che sono in grado di esprimere simbioticamente sul piano sociale, sul piano culturale e sul piano economico, per la capacità di soddisfare i bisogni crescenti di conoscenza e di sapere di una collettività, e la volontà di condivisione di un comune patrimonio culturale.
Nel sistema urbano, il patrimonio culturale/storico costituisce una risorsa strategica per lo sviluppo a livello locale, quindi, lo stimolo per una riflessione critica sulle caratteristiche dell’ambiente urbano, la conoscenza, la conservazione e la fruizione del patrimonio, sono le basi per un progresso di tipo sostenibile, sviluppo sostenibile che si fonda su obiettivi di etica intergenerazionale, vale a dire sull’assunzione di responsabilità della società attuale nei confronti delle generazioni future. Sviluppo non implica soltanto crescita economica, ma cambiamento e miglioramento delle capacità di soddisfare i bisogni umani, materiali e non. Al patrimonio storico culturale oggi viene riconosciuto un ruolo significativo, sempre più strategico di stimolo dell’economia simbolica della città, in termini di benefici sia materiali che immateriali, un miglioramento della qualità della vita e dello spazio pubblico urbano.
Questo esperimento voluto dalla Sovrintendenza, da conoscere e da far conoscere, iniziato lungo la via principale della Città Metropolitana sul versante calabro dello Stretto – il Corso Giuseppe Garibaldi di Reggio Calabria –, e inaugurato a fine gennaio alla presenza delle Autorità istituzionali, culturali ed accademiche, sul corso, continua ora all’interno di un altrettanto simbolico della città e della qualità architettonica ed urbana, Villa Genovese Zerbi, ormai spazio espositivo reggino per antonomasia, è fondato su saldi principi quali: partecipazione, eguaglianza sociale, democratizzazione dello spazio urbano e rinascita della vita pubblica, ci fa comprendere il genius dei reggini di ieri e di oggi, il rilancio di un fertile substrato sociale e culturale.
Garibaldi, ancora lui: come per il “Museo Virtuale Garibaldino” in Aspromonte, a Delianuova, narrato da Anna Ferraiuolo, e come per i luoghi e gli itinerari garibaldini nel territorio della Città Metropolitana di Reggio Calabria rievocati da Francesco Arillotta. Del resto non siamo nel 150mo dell’Unità d’Italia? E di Garibaldi, vuoi o non vuoi, anche da queste parti, non si può proprio fare a meno.
“Segni della città che c’era…”, sia sul Corso Garibaldi che all’interno di Villa Genovese Zerbi, ci racconta di tesori recuperati dall’ex Museo Civico sorto nel 1882, grazie alla volontà di studiosi, e di ritrovamenti dalle macerie del terremoto compiute dalla Regia Soprintendenza ai Monumenti dell’epoca, la mostra espone elementi architettonici in calcare “siracusano”di straordinaria bellezza, rinvenuti all’interno di una stanza, murata, scoperta casualmente con i recenti lavori di ristrutturazione del Museo Nazionale, che si dice siano stati nascosti per preservarle dalle razzie dei soldati Tedeschi durante la seconda guerra mondiale.
L’ordine nella cura espositiva all’interno della mostra “al chiuso” suggerisce un viaggio a ritroso nel tempo, lo si intuisce dalla presenza di due antefisse Liberty in calcare, che attesterebbero il precoce arrivo dello stile floreale nella città dello Stretto, inoltre significativi alla comprensione del repertorio ornamentale sono le decorazioni che connotano i bordi degli scudi araldici dalle leggiadre forme rococò, di probabile derivazione siciliana. I numerosi brani decorativi, databili al Settecento, provengono da edifici privati e da chiese. Il fasto barocco seicentesco è dichiarato dalla presenza di importanti iscrizioni e dalla sovrabbondanza decorativa spesso esaltata dalle policromie del commesso marmoreo.
L’occhio del visitatore viene, inevitabilmente, catturato da una sintetica ma interessante rappresentazione della morfologia urbana della Rhegium cinquecentesca, come si può trarre da un dettaglio della cartografia del Pinelli, databile al XVI secolo, nel quale viene ritratta la città nel suo rapporto con lo Stretto di Messina: Reggio è rappresentata difesa da fortificazioni turrite che racchiudono, in una sorta di arco, tutto il perimetro urbano, all’interno del quale, tuttavia, non è possibile individuare una esatta definizione del tessuto edilizio, ma un quadro più chiaro si può ricostruire grazie all’incisione di Giovan Battista Pacichelli che in una veduta prospettica “a volo d’uccello”, finalmente fornisce una lettura verosimile dell’assetto della città che si presenta di forma approssimativamente quadrangolare, divisibile idealmente in quattro quadranti, mediante due linee ideali: la prima da Ovest a Est, dalla porta della Dogana al Castello e la seconda da Nord a Sud, da porta Mesa a porta San Filippo, asse mediano quest’ultimo costituito dalla cosiddetta via “lata”.
Quest’ultima rappresentava una sorta di via maestra che tagliava la città in senso longitudinale e si presentava stretta, di diseguale larghezza e tortuosa e non rivestiva ancora l’importanza che, rettificata dal piano Mori con la nuova “forma urbis”, avrà nei secoli successivi.
I tesori esposti sono i segni eloquenti di una collettività che ha mostrato conoscenza, ricercatezza e attenzione per la propria città, per il suo decoro architettonico e per le sue arti, si ritrova un grande momento di unità all’interno della comunità reggina, scelte politiche, sociali e urbanistiche sono integrate, si riporta in auge la città che esige il rispetto della storia, la sua rappresentazione ma anche la sua evoluzione, lo storico ruolo di fonte di creatività e di innovazione, di centro di informazione e comunicazione, l’identità e la comunità locale e l’apertura verso il mondo globale.
“Segni della città che c’era…” è certamente una benemerita iniziativa tesa a rilanciare e valorizzare il patrimonio culturale e archeologico calabrese, proiettata verso un processo di riappropriazione culturale e capace di produrre senso e orientamento, e di suscitare processi di identificazione alla collettività, offre benefici che riguardano la sfera ambientale (qualità della vita, spazio pubblico, qualità del design urbano, etc.), la sfera sociale (coesione e inclusione sociale, livello di partecipazione alle attività culturali, benessere, etc.) e la sfera culturale (la vita culturale urbana, l’identità e il patrimonio culturale urbano, la governance culturale, etc.).
È un modo nuovo di intendere il “museo” e di integrarlo alla vita della città: con “la Città che si è fatta Museo ed il Museo che si è fatto Città” si evidenzia il ruolo che i progetti culturali rivestono per la ricostruzione e promozione di una positiva immagine urbana, e come simbolo di modernità e innovazione, perciò non più museo come contenitore chiuso, ma territorio urbano come immenso deposito in cui leggere la sua storia, in questo caso la funzione prevale sulla struttura, non musei intesi come luoghi chiusi, ma come zone di confine, di contatto, di dialogo, di comunicazione, l’idea di città/museo può essere un modello per altre città e contribuisce alla promozione di un senso diffuso di appartenenza al territorio, che può diventare riferimento essenziale per tutti gli attori della pianificazione urbana, custode ed elaboratore della memoria storica della città.
Una memoria che va costruita giorno per giorno, in vista di una mostra che molti auspichiamo di poter visitare a Reggio capoluogo della Città Metropolitana: “Segni della città che c’è!”.