Reggio Calabria. Qualche giorno addietro stavo percorrendo la strada che da via S. Giuseppe porta a via Gebbione. Avevamo indetto un’assemblea per parlare delle primarie, e la nostra attenzione, mia e dei due ragazzi che erano con me in macchina, era concentrata su questo argomento, sulla politica, sulle prospettive della nostra città, della nostra regione, dell’Italia. Quando, ad un tratto, il nostro sguardo venne catturato da una scena che si mostrava davanti ai nostri occhi in tutta la sua tragicità. Tre persone stavano rovistando nella montagna di spazzatura che stava su un lato della strada, così grande da occuparne gran parte della careggiata; erano le cinque di pomeriggio, e quei signori non appartenevano alla categoria così detta dei barboni, o dei clochards, come si dice oggi per edulcorare la pillola o per dare un tocco di nobiltà o romanticismo a ciò che di nobile o romantico nulla ha. Erano vestiti normalmente, e sicuramente avranno avuto un tetto sotto il quale ricoverarsi di notte, senza stare a rimirar le stelle accucciati su qualche panchina o al riparo di qualche cartone, giaciglio improvvisato. Ma erano li, intenti ad ispezionare con cura i sacchetti figli della nostra opulenza, o presunta tale; alla ricerca, forse, di qualche giocattolo, di qualche piccolo utensile, di qualsiasi cosa potesse servire a loro quando aveva già smesso di essere utile agli altri. Quello che non abbiamo avuto modo di vedere sono stati i loro occhi, attraverso i quali cercare di leggere nelle loro anime per capire cosa provassero in quel momento. Se disperazione o soltanto rassegnazione. O soltanto il nulla. Dopo pochi minuti eravamo al circolo, tutti insieme, a parlare di politica. A parlare della nostra vita e di quella del nostro prossimo, che più prossimo non poteva e non potrebbe essere. Di quel prossimo che rovista tra l’immondizia, che sopravvive scansando a stento tutto ciò che questo mondo ingiusto e diseguale gli scaglia addosso ogni santo giorno. E i nostri ragazzi, quelli che discutono tra di loro e con noi di com’è il mondo, e di come invece dovrebbe essere, erano in quella sala piena di ritratti di Uomini Giusti. I nostri ragazzi, pieni di voglia di fare e di amore da dare, ci hanno riempito il cuore con le parole che volevamo ascoltare; ed è stato bello e gratificante disquisire di primarie e di Vendola in quel clima e con quel pathos, sapendo che nessuno di noi si trovava li per caso, insieme a tutti gli altri. Abbiamo finito quando era già buio, convinti più di prima che è necessario dare una sferzata a questa terra, a questo Paese nel quale la dignità non si conquista con uno spread un po’ più basso o con la possibilità di andare all’estero senza farci ridere dietro. O per lo meno che questa è soltanto un infinitesima parte del lavoro da fare. Era buio, e dei tre nostri fratelli in mezzo alla spazzatura non c’era già più traccia, e io li ho immaginati a sorridere di sorrisi tristi con i loro bambini, a rimboccare le coperte augurando loro una serena notte. Loro forse non lo sanno, e immersi nel cinismo del quotidiano non pensano certo che qualcuno possa lottare e sbattersi e litigare per dare a loro e a tutti noi un domani migliore. E ho concluso che se è questo il senso del nostro “fare politica”, allora sì, ne vale effettivamente la pena. Avremo fatto il nostro dovere, e quanto era nelle nostre possibilità, quando potremo guardare dritto negli occhi queste persone e, senza dire niente, cogliere nella loro anima la luce della speranza.
Nino Mallamaci
Coordinatore del circolo De Angelis